A caccia dei migranti-untori: le ronde dell’ultradestra serba
Serbia A Belgrado cortei razzisti e coprifuoco imposto a chi è costretto a vivere in strada. A InfoPark, ritrovo dei richiedenti asilo, distribuiti volantini in arabo: «Non fatevi vedere»
Serbia A Belgrado cortei razzisti e coprifuoco imposto a chi è costretto a vivere in strada. A InfoPark, ritrovo dei richiedenti asilo, distribuiti volantini in arabo: «Non fatevi vedere»
Jalil non ha neanche 16 anni. Ha dormito all’aperto, in uno dei cantieri che segnano la terra di nessuno che attraversa Belgrado, come una cicatrice, tra la città di sempre e quella di domani. La zona di Savamala, tra il fiume Sava e il resto della città, è un cantiere.
Qui, dove c’è la stazione dei bus, da anni, si ritrovano i migranti di passaggio a Belgrado.
Il parchetto vicino alla facoltà di Economia e quello più grande, alle spalle, sono il limbo di Jalil e tanti altri. «Non ho un posto dove andare, ci sono delle case, per qualcuno, come i siriani o gli iraniani che hanno dei contatti. Noi afghani siamo sempre in strada».
Jalil ha una storia che se non fosse terribile, ormai, sarebbe quasi banale. È partito due anni fa da Jalalabad, da quella guerra in Afghanistan che finisce in prima pagina se si parla di accordi tra Usa, talebani e governo locale, ma nelle brevi quando l’agenzia Onu che se ne occupa, l’Unama, dichiara il 2019 come l’anno peggiore per le vittime civili dal 2001.
Afghanistan, Iran, Turchia. Poi la Grecia, via Bulgaria, infine la Serbia. Già passato due volte, respinto una volta in Bosnia-Erzegovina, una volta in Serbia dalla Croazia. Con i metodi delle polizie locali che sono ben noti, come ha denunciato il rapporto Pushed to The Edge di Amnesty International.
«Avevano i cani, urlavano, non parlavano inglese. E picchiavano». Attorno a Jalil – «non mi fotografare però» – altri ragazzi come lui, poco più piccoli, poco più grandi. Lo ascoltano. Sono tutti sparpagliati tra le panchine e le aiuole, tra una colonna sormontata da una croce ortodossa e una fontana. Che non dà più acqua. Come la colonnina a pannelli solari che un gruppo di designer serbi aveva donato al parco nel 2015, all’inizio della crisi dei rifugiati lungo la Balkan Route, perché queste persone potessero ricaricare i cellulari.
Quella colonnina, oggi, è distrutta, come la fontana è chiusa. Perché acqua ed elettricità sarebbero un pull factor e come tali vanno disincentivati. Alle spalle delle decine di uomini e ragazzi sparpagliati, lo skyline di WaterFront, un progetto edilizio faraonico in stile Dubai che è stato costruito con fondi degli Emirati arabi uniti sul lungo fiume. Case per ricchi, al momento quasi tutte vuote. Una polaroid dell’urbanità, tra gentrificazione e fragilità sociali.
Jalil è appena passato da InfoPark. Ha potuto caricare il suo cellulare, usare un computer, chiedere se c’era un giubbotto più caldo del suo. Stevan è una delle anime di InfoPark. «Siamo partiti nel 2015, io prima lavoravo con agenzie Onu, ma avevo voglia di fare qualcosa di più concreto. E abbiamo iniziato».
Nel 2015, con numeri impressionanti, è partito a lavorare all’ong che proprio nel parco accoglieva, rifocillava, consigliava le persone in transito. Poi, dopo un paio d’anni, hanno preferito prendere una sede nella strada vicino al parco e alla stazione di Belgrado, per dare un punto di riferimento e un aiuto pratico a queste persone.
Alle sue spalle dei bambini giocano, altri navigano in internet. «Diamo una mano in tutto, loro non vogliono stare qui. Solo che adesso – continua Stevan – è tutto chiuso. Per anni siamo stati da soli, poi il governo, fiutando anche gli incentivi europei, ha preteso di centralizzare tutta la filiera. Al momento ci sono dei centri sparsi per tutto il paese (più di dieci, che vengono aumentati o diminuiti a seconda del flusso) che sono solo dei dormitori. Le autorità dichiarano che se queste persone vogliono, hanno tutto quello che gli serve. Ma tutto quello che serve a queste persone è un futuro. Sono qui perché non vogliono più stare a casa loro e vogliono raggiungere parenti e amici altrove. Va pensata e attuata una soluzione sistemica. Non serve a nulla questa situazione. Nei campi, se non ci sono ong, non c’è alcuna attività. Ci si lascia vivere e – lentamente – morire. Ecco perché sono qui, aspettano la chiamata del di turno, che gli indica quale via al momento sembra più facile. Si muovono in piccoli gruppi e vanno. Ma quasi sempre ritornano, pochissimi ce la fanno. Sembra di svuotare il mare con un bicchier d’acqua. E ora ci si mettono anche i gruppi di destra».
L’8 marzo, davanti al palazzo del governo di Belgrado, una folla di circa 200 persone si è radunata per urlare la sua «preoccupazione per il possibile arrivo dei migranti in Serbia e il ritorno di coloro che sono passati attraverso la Serbia», secondo quanto hanno raccontato i media locali.
Gli slogan quelli dell’armamentario identitario e sovranista dei razzismi globali: «Se lo stato e la polizia non possono proteggere lo stato, lo faremo noi», annunciando che avrebbero istituito più pattuglie di strada. I partecipanti hanno gridato «Non vogliamo i migranti», «Serbia per i serbi», «Recinti per i migranti, libertà per i cittadini» e altri slogan. Uno striscione recitava: «I terroristi non sono i benvenuti» e «Non ci sostituirete».
Come non bastasse il clima, immotivato, di odio montante, è arrivato anche il Covid-19. Il governo non ha perso l’occasione per una stretta, nonostante la situazione non siano previste altre misure coercitive particolari per gli altri cittadini, se si esclude un laconico invito a restare a casa agli over 65.
L’esecutivo ha ordinato a tutti i migranti di restare chiusi nei centri, eliminando tutte le possibilità di movimento. Come se il contagio fosse in qualche modo una prerogativa dei migranti.
La mossa è arrivata dopo che uno dei movimenti di estrema destra, il Dveri, ha iniziato a postare video sui social di ‘ronde di cittadini’ che impongono un coprifuoco ai migranti ‘sorpresi’ a girare di notte per le città serbe. Lo stesso movimento, dall’inizio dell’anno, accusa il governo di fare accordi segreti con l’Ue per accogliere migranti.
Secondo Stevan tutto è iniziato tempo fa, quasi all’improvviso, all’inizio del 2020. «Prima c’era stato qualche episodio singolo, ma nulla di preoccupante. Poi alcuni ragazzi sono venuti a dirci che erano arrivati in gruppo, nel parco, alcune persone. Vestite di nero. Che gli hanno dato dei volantini in serbo, inglese e arabo (probabilmente non sanno neanche che gli afghani non lo parlano) nei quali si intimava ai ragazzi di non farsi vedere. Proprio così – racconta Stevan, che per la prima volta perde la calma – siate invisibili! Perché in fondo è così, da sempre. Che senso ha, quando li fermano, se non sono nei centri, dargli un foglio che intima di lasciare il paese. Con che mezzi? Allora è evidente che nessuno vuole fare nulla e i gruppi di destra, in vista delle prossime elezioni, si stanno infilando in questo vuoto», conclude l’operatore di InfoPark.
Della stessa opinione è Nataljia Miletic, giornalista freelance serba residente a Berlino, nota per le sue inchieste sull’estrema destra serba e sui rifugiati. «Attorno alla logica clanica che garantisce il dominio per primo ministro Vucic adesso si muove qualcosa. Parte dell’opposizione, che è ancora più a destra di Vucic e lo ritiene troppo ‘europeista’, guarda alle dinamiche della politica internazionale. Italia, Grecia, Ungheria, ovunque. Perché non provare a metterlo in difficoltà con il tema che garantisce voti e consensi, cioè la criminalizzazione di questi disperati? Non credo che puntino a rimuovere Vucic, non ne hanno neanche la forza, ma spesso i gruppi di estrema destra sono stati utili al sistema, come ai tempi delle proteste per WaterFront.
«L’estrema destra faceva da braccio armato, contro gli oppositori o contro quelli che non volevano vendere – continua Miletic – Poi magari non hanno ricevuto in cambio quel che volevano, o ancora una volta fanno il gioco di Vucic, chi può dirlo. Ma da qualche mese hanno iniziato a molestare queste persone, ci sono fake news su presunte aggressioni a danni di poveri cittadini da parte di migranti, che si rivelano false, ma quando ormai hanno girato. Il più attivo in questo senso è Misa Vatic, un neonazista di Novi Sad, che è attivo nelle reti internazionali sovraniste e ora si è proclamato leader della crociata contro i migranti, dopo che anche i media filo – governativi lo avevano sdoganato».
Irena Stojadinovic parla un italiano perfetto. Psicologa, ha studiato e continua a studiare Basaglia e le sue teorie. Lavora per PIN (Psychosocial Innovation Network), un’ong che si occupa di sostegno psicologico.
«Offriamo supporto in alcuni campi e qui in sede. È difficile, le persone si fermano poco, non puoi puntare su un lungo lavoro terapico. Devi provare a fare quel che puoi, sostenendo queste persone e aiutandoli a gestire i loro traumi, le loro paure. A questo lavoro affianchiamo quello di ricerca, per una raccolta dati che ci aiuti a elaborare strategie di sostengo. Avevamo l’esperienza dei conflitti anni Novanta, ma sono situazioni differenti. Qui, in fondo, i rifugiati di quegli anni parlavano la stessa lingua, avevano lo stesso passato e lo stesso immaginario. Un dramma anche quello, certo, ma anche con un clima differente».
«Qui non c’è stata ostilità, per lungo tempo, poi piano piano la situazione si è aggravata e bene che vada i migranti sono confinati in una invisibilità che lascia dei segni – aggiunge Stojadinovic – Al momento parliamo di 6.500 persone nei campi e di circa 2.500 persone per strada. Tutte con un peso enorme a livello psicologico: il senso di non ‘fare nulla’, di vedere la vita che passa senza un senso e senza un posto dove tornare. In alcuni poi, il senso di colpa per chi aspetta a casa un aiuto è lacerante. E i minori, ovviamente, sono i più fragili, Notiamo spesso che, nelle comunità, i piccoli sviluppano un rapporto malsano con i trafficanti, che vedono come figure che danno sicurezza. Finendo a loro volta per imitarli. Nei centri non vogliono andarci: sono lontani dai centri abitati, con pochi e costosi collegamenti, preferiscono vivere in strada. Ma la situazione è dura da sopportare per ragazzi così giovani».
Nel mezzo di giochi più grandi di loro, come ci fossero restate impigliate, ci sono le vite di Jalil e tanti altri. Nel parco, in disparte, ci sono due famiglie. Una donna con il bambino parla con Ivana, un’altra operatrice di InfoPark. Si chiama Asma, nasconde la sua piccola dietro la schiena. Parla un ottimo inglese, arrivano dalla Siria.
«Siamo fuggiti da Idlib, eravamo già scappati altre volte, in Siria. Siamo profughi per la terza volta, ma ora restare è impossibile. Siamo una famiglia che si è opposta al regime, quando torneranno non ci salverà nessuno», racconta con gli occhi grandi e determinati, ma con la voce incerta.
«Siamo passati dalla Romania, ma non volevamo restare chiusi là. Parte della mia famiglia è in Germania, vogliamo raggiungerla. La Siria non esiste più». Ivana le parla dei centri per le madri con minori, ma lei ha paura che suo fratello, che viaggia con lei, venga separato da loro.
Intanto, ostinatamente, mostra il cellulare fracassato. «Sono stati i poliziotti, in Romania. Perché? Che gli abbiamo fatto noi? Potete ripararlo?». Ivana la rassicura, se ne occuperà InfoPark. «Siamo preoccupati. L’offensiva su Idlib potrebbe di nuovo far crescere i numeri», dice Ivana. «E non tira una brutta aria qui, sotto elezioni, per loro e per tutti noi».
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento