Nella lettura degli atti dell’inchiesta di Bergamo sulla gestione iniziale del Covid in Valseriana, la perizia chiesta dalla procura al microbiologo Andrea Crisanti funge da «vademecum», perché aiuta a organizzare l’enorme mole di informazioni raccolta dai magistrati. Gli accertamenti chiesti dai giudici riguardano tre temi: il focolaio dell’ospedale di Alzano Lombardo, le indecisioni sulla zona rossa di Alzano Lombardo e Nembro, la mancata applicazione del piano anti-pandemico nazionale. Andiamo per ordine.

QUANTO AVVENUTO nell’ospedale «Pesenti Fenaroli» di Alzano mostra tutta l’impreparazione della sanità di fronte al virus. Il 23 febbraio, dopo i primi due tamponi positivi rilevati tra i pazienti, l’ospedale viene chiuso. Ma il virus è già dilagato nella struttura, come ricostruisce la perizia: «Al giorno 23 febbraio 2020 41 malati Covid sono già ricoverati». 30 di loro non sopravviveranno. Inoltre, al 23 febbraio almeno 55 operatori sanitari dell’ospedale sono già contagiati.

Diverse le negligenze registrate dal consulente: reparti non riorganizzati, tamponi mancanti, scarsa formazione del personale sull’uso delle mascherine che diventano presto introvabili. Per sopperire, recita la perizia, gli operatori furono persino autorizzati «a utilizzare le mascherine dei kit anti-incendio» e «a riutilizzare le mascherine FFP2». Per la pessima gestione del focolaio ospedaliero, i giudici hanno indagato i dirigenti dell’azienda sanitaria di Bergamo Est Francesco Locati e Roberto Cosentina, l’ex-direttore sanitario dell’ospedale Giuseppe Marzulli e il direttore dell’Agenzia di tutela della salute di Bergamo Massimo Giupponi.

QUANTO ACCADE all’ospedale di Alzano è una delle conseguenze della mancata applicazione di un piano anti-pandemico, sostiene la perizia. Per la verità, in quei giorni Cts, governo e regione di piani sul tavolo ne hanno addirittura due. Il primo è quello del 2006 contro una pandemia influenzale, vigente ma mai aggiornato. Il secondo è quello redatto su richiesta del Cts dai tecnici della Fondazione Bruno Kessler: avrebbe fatto scattare la zona rossa già il 3 marzo come infatti chiede il Cts al governo, che prende tempo. «Il presidente Conte – scrive Crisanti – evidenziava che la zona rossa va utilizzata con parsimonia perché ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato» e «decide di rifletterci». Il lockdown scatta solo l’8 marzo, per tutto il Paese.

Il piano anti-Covid viene secretato per non spaventare l’opinione pubblica. Perciò, non può nemmeno essere comunicato agli enti locali che dovrebbero attuarlo. Con un piano obsoleto e un altro confidenziale, la perizia conclude che «la risposta alla pandemia è stata affidata alle valutazioni del Cts che ha di volta in volta improvvisato sulla base dei contributi e esperienza dei componenti». Questo spiega il rimpallo di responsabilità per la zona rossa di Alzano e Nembro che ha convinto i Pm a iscrivere al registro degli indagati i tecnici del Cts, i dirigenti del ministero della Salute e della Protezione civile, il ministro Speranza e il premier Conte, il presidente della Lombardia Attilio Fontana, il suo assessore alla salute Giulio Gallera e il dg della sanità regionale Luigi Cajazzo.

In caso di rinvio a giudizio le difese punteranno sulla scarsa informazione intorno a un virus sconosciuto. La ragione è fondata e molti esperti di «giudiziaria» già prevedono facili archiviazioni. Tuttavia, l’equazione garantista «tutti colpevoli, nessun colpevole» rischia di annullare anche altre responsabilità che non sono giustificate dall’emergenza.

IL PIANO ANTIPANDEMICO del 2006, vigente anche se non aggiornato, non è solo un manuale per rispondere a una pandemia: spiega anche come rafforzare le difese quando il virus non c’è. Nella «fase 1» in cui non si registrano potenziali minacce il piano prescrive che il governo e le regioni costituiscano «una riserva nazionale di dispositivi di protezione individuali, (…) kit diagnostici e altri supporti tecnici», definiscano «le modalità di approvvigionamento a livello locale/regionale nelle fasi immediatamente successive», avviino «la formazione intensiva degli gli operatori sanitari sulla pandemia» con «esercitazioni regolari sul Piano, inclusa la catena di comando e controllo».

Un lavoro che andava fatto in tempo di pace e non nel gennaio-febbraio 2020, quando tutto il mondo fa a gara ad accaparrarsi mascherine e apparecchiature. Le conseguenze di queste mancanze sono mostrate plasticamente dal disastro dell’ospedale di Alzano, ma hanno ostacolato anche la gestione territoriale dell’emergenza. Per questo sono stati indagati anche i dirigenti regionali, incaricati al pari del governo di applicare il piano anti-pandemia.

La giunta a trazione leghista negli anni precedenti aveva lavorato in senso contrario. Nel 2019, ha rivelato un’inchiesta del settimanale l’Espresso, aveva persino premiato con un incentivo i direttori generali delle aziende sanitarie della regione in grado di «evitare incrementi di costo dovuti all’aumento delle rimanenze di reparto» di kit diagnostici, cioè assottigliare le scorte. Il disastro della Lombardia era già iniziato.