«Il futuro della sovranità russa dipende dai partecipanti all’operazione militare speciale». È un Putin diverso quello che ieri ha parlato sulla dal pulpito sulla Piazza rossa di Mosca in occasione della 78° celebrazione della vittoria dell’Armata rossa sulle forze naziste nella seconda Guerra mondiale.

UN ANNO FA tuonava contro le interferenze occidentali in Ucraina, accusava il governo ucraino di essere neonazista e apriva vaghi spiragli di pace, pur restando fermo nella necessità di «proteggere le popolazioni russofone d’Ucraina e denazificare la sua classe dirigente». Ieri il presidente si è mostrato meno marziale, come le vesti del grande generale avessero ceduto il posto a quelle, meno epiche, di un capo di stato del XXI° secolo. Di fronte a una platea molto meno numerosa rispetto agli anni passati, circondato da sei leader dell’Asia centrale (tutti di ex repubbliche sovietiche) e dal fedelissimo presidente bielorusso Lukashenko, Vladimir Putin ha nuovamente parlato di «minaccia esistenziale» per il suo Paese. «Oggi la civiltà si trova di nuovo ad un traguardo decisivo, di svolta. Contro la nostra Patria è stata di nuovo scatenata una vera guerra. Ma abbiamo già respinto il terrorismo internazionale, e difenderemo anche gli abitanti del Donbass, garantiremo la loro e la nostra sicurezza». In questa frase c’è molto dell’ultimo anno e mezzo di storia russa e, forse, anche un po’ del futuro prossimo.

IL CREMLINO sta insistendo con sempre maggiore veemenza sull’attacco che «l’Occidente collettivo» starebbe conducendo contro la Federazione. Quindi, si legge tra le righe del discorso di Putin, oggi la Russia è chiamata nuovamente a resistere a una minaccia letale; proprio come nel 1941, quando cioè la Germania di Hitler lanciò l’Operazione Barbarossa, il piano di invasione dello sconfinato territorio russo. E, sempre oggi, la Russia è chiamata a vincere per uscire da questa crisi più forte di prima, come nel 1945. La nomina esplicitamente, la vittoria, alla fine del suo discorso, come se fosse un destino al quale «il suo popolo» è chiamato. Un destino doloroso, certo, ma ne va del futuro. In quel breve frangente il leader recupera il suo afflato da condottiero, ma dura poco stavolta. Poi passa un carro armato della Seconda guerra mondiale, uno solo, con il carrista che saluta le autorità e sventola la bandiera rossa. Neanche la salva di cannoni riesce a rendere solenne la parata come gli anni passati. Ieri era importante mostrarsi, far vedere agli ascoltatori televisivi che il capo non ha paura, nonostante gli attacchi di droni sul Cremlino (ancora da verificare) e le voci di malattia che accompagnano puntualmente le sue assenze troppo prolungate sulla stampa Occidentale.

DEL RESTO STAVOLTA il presidente russo non è stato neanche così evocativo come in passato. Chi aspettava la celebrazione di ieri per cogliere nelle parole del presidente le possibili evoluzioni della strategia russa in Ucraina è rimasto alquanto deluso. Tuttavia, dei segnali ci sono stati. Nella frase «difenderemo anche gli abitanti del Donbass, garantiremo la loro e la nostra sicurezza» alcuni analisti hanno visto una rimodulazione degli obiettivi militari russi. Quindi, si chiedono, ora sarebbe sufficiente conquistare interamente il Donetsk e il Lugansk per soddisfare i vertici russi? E sulle garanzie di sicurezza, osteggiare «l’allargamento della Nato a est» è stato già scritto molto, ma il presidente ha voluto ribadirlo, come a sottolineare che su quel punto non si transige.

E, SUL «MONDO multipolare» che verrà e che gli Usa vogliono arrestare, va notata anche la strizzata d’occhio alla Cina. Il presidente russo elogia, un po’ fuori contesto a dir la verità, «l’eroismo dei soldati nella battaglia contro il militarismo giapponese» e gli sforzi dei decenni scorsi contro il nemico comune che ora vanno rafforzati per la costruzione di un nuovo ordine, «più equo».
Tutto qui, trenta minuti circa e anche quest’ennesima ricorrenza celebrata durante la guerra in Ucraina è finita.