Cultura

77 Contro il presente. Un po’ di possibile, sennò soffochiamo

77 Contro il presente. Un po’ di possibile, sennò soffochiamo

Speciale Il Manifesto. Il movimento del 1977, 40 anni dopo Passare a «contropelo» il ’77 significa tornare al presente. Per liberarlo dal futuro che è stato e riaprire lo scarto con il possibile. Con gli stessi attrezzi di allora, quelli rubati dagli arsenali dei padroni: la vita e la sua riproduzione come terreno del conflitto, il reddito contro il lavoro, la cooperazione fuori dall’impresa, gli affetti sottratti al valore, il desiderio ben sopra la sua misura, la democrazia radicale e l’auto-governo contro i populismi. Nell'epoca neoliberale si afferma una libertà che coincide con il suo opposto: l'auto-sfruttamento. Dal movimento che ha annunciato il futuro gli antidoti alla «post-democrazia» e l’alternativa al lavoro compulsivo e iper-precario

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 5 aprile 2017

Il passato si fa nel presente. Sarebbe dovuta andare diversamente la rivoluzione che il ’77 ha annunciato. È il tempo verbale dell’epoca neoliberale: il condizionale passato, tempo del rimpianto, chiude il possibile che non è stato, ma resta comunque possibile, e rende ciò che siamo il risultato delle scelte sbagliate. È la logica del default e dell’impresa di sé, del fallimento della volontà e della colpa del debito, che misura successi e insuccessi sul capitale di vita investito, al momento giusto. Il ’77 apriva con un gesto d’azzardo: qui e ora sta il riscatto dei desideri, questa è la forma della libertà delle mani fuggite al lavoro di fabbrica. Aboliva il futuro per consegnarci il presente, per sempre.

Settantasette. La rivoluzione che viene titolava un libro DeriveApprodi uscito in occasione del ventennale del movimento nel 1997, ancora non del tutto parassitato dagli effetti del neoliberismo. Quella rivoluzione persistente – prolungatasi fin dentro gli anni Ottanta, come segnalava la «Talpa del giovedì» pubblicata da Il manifesto il 26febbraio 1987 – che chiudeva il Novecento con la sua politica e le sue ciminiere, nella svolta linguistica della forza lavoro avrebbe trovato il modo di creare le istituzioni politiche e produttive del tempo nuovo? Nel rovesciare i soggetti, di mettere al mondo nuove forme di vita? Nel riprendere il lavoro, di continuare la strada per rifiutarlo?

Così non pare sia andata: la punta più avanzata di un’esperienza di libertà collettivamente vissuta nell’Occidente finiva rincorsa e raggiunta sul suo stesso terreno, quello di un desiderio che sarebbe diventato merce e di una felicità collettiva destinata a pochi. Il sé imprenditore passava a prendersi le opere dell’autonomia e nella svolta bifida si imboccava il tornante sbagliato. Benvenuti nell’età dell’ambivalenza nella quale da allora restiamo.

Il futuro tornava sdoppiato a produrre rimpianto per il lavoro sicuro e le istituzioni del buon governo e a consolare di soddisfazione i ritrovati individui, di nuovo padroni di sé. Le differenze immaginate e disegnate, dei generi e dei relativi valori d’uso, dei piaceri e dei corpi, entravano nella grande distribuzione insieme agli psicofarmaci. E l’affollato bar di «untorelli» del IV episodio di Guerre Stellari finiva regolato dall’Impero, o in mano allo Jedi di turno.

I predicatori di morale, anche politica, oggi ammoniscono ex post che tutto era previsto: passata la misura tocca rientrare nel limite, unico antidoto alla fuga in avanti di un desiderio sfrenato finito in bocca al capitale. Il vizio sarebbe stato di fondo, persino in quel marxismo eretico italiano colpevole di badare al cervello sociale e non più alle mani callose, alle istituzioni del comune da inventare invece che a prendersi lo Stato.

Quarant’anni dopo, passare a «contropelo» il ’77 significa tornare al presente. Per liberarlo dal futuro che è stato e riaprire lo scarto con il possibile. Con gli stessi attrezzi di allora, quelli rubati dagli arsenali dei padroni: la vita e la sua riproduzione come terreno del conflitto, il reddito contro il lavoro, la cooperazione fuori dall’impresa, gli affetti sottratti al valore, il desiderio ben sopra la sua misura, la democrazia radicale e l’auto-governo contro i populismi.

Proprio perché è possibile leggere la cosiddetta politica dell’età «postdemocratica» nella quale abitiamo come l’effetto della controrivoluzione, sociale, culturale e politica, che ha preso il nome di neoliberismo, occorre tornare a prima che arrivasse il futuro, a quell’infanzia duratura che il ’77 ha per noi spalancato, per vivere il presente nelle opere dell’amicizia.

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