Gli anni Settanta, nodi e contraddizioni
Scaffale «L’affaire 7 aprile», di Roberto Colozza per Einaudi. L’autore non nasconde le forzature, dalla pratica della sostituzione dei mandati di cattura al prolungamento della carcerazione preventiva, ma «difende» le tesi di Calogero
Scaffale «L’affaire 7 aprile», di Roberto Colozza per Einaudi. L’autore non nasconde le forzature, dalla pratica della sostituzione dei mandati di cattura al prolungamento della carcerazione preventiva, ma «difende» le tesi di Calogero
«La Corte d’Appello di Roma ha demolito il castello accusatorio del 7 aprile attraverso il quale Stato, partiti e poteri si liberarono nel 1979 dell’Autonomia operaia… Qualcuno ci ha detto ieri: è anche una vostra vittoria. Magra vittoria vedere restituita, a otto anni di distanza, una più presentabile immagine della giustizia. Perché la pena era già stata inflitta, è stata scontata prima del processo, una vendetta è stata eseguita. Quella di ieri è una tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Con queste amare parole Rossana Rossanda commentava sul manifesto del 9 giugno 1987 la sentenza della Corte d’Appello, che sarà confermata l’anno successivo dalla Cassazione. Una sentenza che, come spesso accade nel nostro paese, ribaltava l’esito del processo di primo grado e sostanzialmente demoliva il famigerato «teorema Calogero».
SU QUESTO PASSAGGIO importante della storia degli anni Settanta italiani, è da poco uscito un corposo volume di Roberto Colozza, L’affaire 7 aprile (Einaudi, pp. 370, euro 32). Con questo libro la casa editrice Einaudi sembra confermare l’interesse ad affrontare il nodo degli anni Settanta da un punto di vista storiografico e non, come troppo spesso ancora avviene, con il racconto di un «testimone» o le riflessioni di un giornalista. Lodevole intenzione, anche se finora con risultati quantomeno contraddittori che vanno dal bel lavoro di Monica Galfré su Marco Donat Cattin all’assai discutibile libro di Miguel Gotor, Generazione Settanta.
L’inchiesta di Pietro Calogero, anche per l’enorme rilievo e sostegno che la grande stampa e il mondo politico diedero alle tesi del magistrato, è forse uno dei casi più emblematici delle gravi violazioni dello stato di diritto legati alla logica emergenziale con la quale la magistratura affrontò gli anni drammatici segnati dal terrorismo di sinistra e dalla violenza diffusa nel conflitto sociale. Quelle violazioni che, pur se spesso negate nelle memorie di magistrati e politici dell’epoca, hanno un peso notevole quando la magistratura di altri paesi si trova a giudicare le richieste di estradizione per ormai anziani «condannati» per le vicende legate alla lotta armata degli anni Settanta.
IL LIBRO DI COLOZZA non nasconde le forzature più gravi dell’affaire, dalla pratica giudiziaria della sostituzione dei mandati di cattura, al prolungamento della carcerazione preventiva, ma sostanzialmente «difende» le tesi di Calogero scaricando su Roma, e in particolar modo su Achille Gallucci il pubblico ministero del «troncone» romano del processo, la colpa di aver condotto le intuizioni di Calogero nel vicolo cieco di un teorema indimostrabile.
«Certo anche l’ipotesi iniziale di Calogero risultò schematica, ma in realtà era pionieristica e documentata. È soprattutto nella capitale, invece, che s’annidano le fragilità del “7 aprile” e che trovano forza le ragioni di coloro che lo denunciarono contro-accusando».
In realtà entrambi i processi in cui si articolò l’inchiesta, quello romano e quello padovano, avevano in comune l’ipotesi accusatoria formulata da Pietro Calogero e sostenuta, con poche eccezioni, anche a livello di riflessione storico-politica, dal Pci. Come in una matrioska, una dentro l’altra, c’erano le Brigate rosse, l’Autonomia operaia e Potere operaio.
La magistratura e la politica, dopo il duro scacco subito con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, offrivano al paese una lettura del fenomeno terroristico, della sua matrice e della sua strategia: così il processo 7 aprile fin dall’inizio «si configurò come una resa dei conti per le sorti della Repubblica».
PROPRIO QUESTO carattere di «resa dei conti» è un po’ il filo conduttore della narrazione del libro che fa trasparire nelle pagine la convinzione che alla fine di tutto, pur se le tesi di Calogero non reggeranno da un punto di vista giuridico (e aggiungerei storico), il risultato politico, necessario, era stata raggiunto: spazzare via un’intera area della sovversione, «prosciugare l’acqua nella quale nuotavano i terroristi».
La stessa sentenza della Corte d’Appello viene «ridimensionata» dall’autore come una sorta di adattamento «al mutato clima politico» (sono gli anni della «dissociazione» e delle dichiarazioni sulla fine della lotta armata) che non avrebbe messo in discussione «né metodo né contenuti d’istruttoria e primo grado».
Quindi nelle pagine del libro, che spaziano ben oltre le sole vicende giudiziarie dei processi, si respira questa forma di «giustificazionismo» del teorema Calogero.
Certo, non pochi furono gli imputati che passarono numerosi anni in carcere, comprese quelle speciali, per essere alla fine assolti. Certo, alcuni di loro negli anni successivi alla ingiusta carcerazione, si ammalarono e morirono prematuramente (Ferrari Bravo, Finzi, Bianchini, Tommei, Vesce, Serafini, Raiteri, Pozzi, Baietta, Liverani, Dalmaviva per ricordarne i nomi). «Danni collaterali», forse.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento