Quando inizia un’era, in musica? Quando tutti concordano, chi più chi meno, che uno o più eventi significativi abbiano spinto la materia musicale a cambiare forma, incontrando via via contrasti, accettazioni, caute aperture, chiusure riottose. E infine essendoci, e basta, e stavolta per accettazione pacifica di tutti. I plessi cronologici che ci siamo inventati mettono qualche ordine, ma non spiegano tutto. Almeno, non quasi tutto. Vale per la musica, vale per tutto il resto. Ad esempio per la società tutta il ’68 americano è iniziato nel ’64 di Berkeley. E forse prima. In musica senz’altro. E vale per le Stelle e strisce, e pure per il paese che, influenzando non poco gli States, dopo esserne stato ammiratore inconsulto di ogni forma musicale importata purché avesse sentore di «autenticità» popolare, cominciò a ri-esportarne lì la musica originaria riveduta e corretta. In soldoni, l’Inghilterra. Nel secondo dopoguerra digerì dosi sovrabbondanti di blues, di jazz revival anche in chiave «traditional», di esperimenti sonori passati quasi sotto traccia negli Usa. Dunque la Gran Bretagna fece da «faro guida» per le nuove generazioni rock. Il ’68 inglese della musica, quindi, iniziò ben prima, almeno a far data da quando, ben ricostruito da Gianfranco Salvatore nell’imponente ed affascinate testo I primi 4 secondi di Revolver, i Beatles frantumarono scientemente l’involucro liscio e ordinato della perfetta «forma canzone», introducendo elementi che la facevano esplodere e implodere assieme.

Dunque lo scivolo temporale che porta dal 1965 di Revolver al ’68 delle celebrazioni ha avuto parecchi contributi e notevoli accelerazioni. Però oggi qui individueremo una nutrita pattuglia di esempi che rientrano strettamente nell’anno della ricorrenza, dove la slavina delle intuizioni precedenti ha portato magnifici detriti e profluvio di idee e di pratiche, un modo per «riportare tutto a casa», dylanianamente, e mettere un barlume d’ordine nel grande e benefico disordine sotto il cielo del ’68.

Partiamo dunque proprio dal binomio quasi di necessità, Beatles e Rolling Stones. I quattro di Liverpool nel ’68 fanno uscire il magnifico doppio album bianco senza titolo. E già vale l’idea provocatoria di stipare quattro facciate di note varie, eventuali e creative sempre, e non dare neppur un titolo. Concetto amplificato dal candore grafico assoluto ideato da Richard Hamilton. I Beatles sono stati in India, si sono rilassati (per quanto possibile, a gente sotto l’occhio morboso dei media ad ogni secondo), e hanno scritto molto: in studio arrivano con una trentina di brani. Molti capolavori. Dear Prudence, While My Guitar Gently Weeps, Blackbird, Helter Skelter, la sperimentale Revolution 9 con nastri magnetici ed effetti sonori svariati. In quello stesso anno l’animo gentile e mistico del gruppo, George Harrison, fa uscire il suo primo lavoro solistico, che è anche la prima uscita per la Apple Records dei Beatles, Wonderwall Music, colonna sonora del film omonimo: lui non suona né canta, ma assembla una labirintica sequenza dei suoi adorati brani indiani, loop elettronici, contributi da musicisti rock inglesi. Spiazzante e adorabile. I «cugini» Rolling Stones, invece, hanno nel carniere per il ’68 il loro saporito Beggars Banquet: spazzata via la polvere psichedelica dei precedenti dischi, qui tornano le belle sferze del Delta Blues amato da lontano, il rock puro e crudo, e un caposaldo come Sympathy for the Devil, inchiavardato sul «dos tres» caraibico nascosto che tanto amava Bo Diddley.

BEAT IN TRAGITTO

E i gruppi «beat», che si trovano a questo scorcio di decennio con tutto lo splendido carico delle loro sonorità grezze, tra rhythm and blues e garage proto punk? Ci sono, e nel ’68 piazzano ancora qualche colpo gobbo. Magari cominciando a cambiare strada. E parecchio. Ad esempio i Kinks di Ray Davies, che con The Kinks Are the Village Green Preservation Society realizzano in pratica un disco solo dello stesso Davies, e concept, dunque legato a un tema unitario: la misteriosa e apparentemente tranquilla vita di un borgo inglese verdeggiante sperduto nelle campagne. Faccende che c’entrano assai poco col tumulto metropolitano del ’68 mondiale: eppure ad oggi resta il disco più venduto del catalogo della band, e forse il più misterioso. Con una bella dose di mellotron (la tastiera che di lì in avanti sarebbe stata uno dei suggelli del progressive rock), e l’apporto in studio del grande Nicky Hopkins.

Il mellotron provano anche ad usarlo gli psichedelici e beat Zombies, nel loro sfortunatissimo Odessey and Oracle, registrato agli Abbey Road Studios pochi mesi dopo che i Beatles hanno occupato gli stessi spazi per incidere Sgt. Pepper’s. Già il titolo non va bene: c’è un clamoroso errore di ortografia, in Odessey. Peccato, perché la musica è un perfetto assestamento tra beat, psichedelia e aperture: se ne accorgeranno in molti, decenni dopo. Rod Argent, il tastierista, avrà a quel punto bisogno di fondare il «suo» gruppo prog per scappare dalla trappola, gli Argent, appunto. Disco perfetto e fine annunciata anche per i grandi Small Faces nel ’68, con Ogdens’ Nut Gone Flake: un furente concept album psichedelico che, nella seconda facciata, riporta la strana fiaba di un signore alla ricerca dell’«altra faccia della luna». È troppo audace pensare che gli Small Faces del ’68 avessero intuito che prima o poi qualcuno l’altra faccia della luna l’avrebbe descritta davvero, in musica, e si sarebbe chiamato Pink Floyd? Sta di fatto che Ogdens marca la fine del gruppo, e la nascita, dagli spezzoni, degli Humble Pie e dei Faces, dove si fece grande Rod Stewart.

Concept album e, forse, prima opera rock in assoluto è anche S.F. Sorrow dei Pretty Things, guidati dal carismatico Phil May, quasi un contraltare britannico di Jim Morrison. Un disco che sarà ossessione per Pete Townsend degli Who, ossessione da esorcizzare con la sua prima concept opera, Tommy. Qui, nella storia di vita del «figlio di nessuno» Sebastian, acida psichedelia, pop rotondo, mellotron, sitar e dulcimer, impasti timbrici assolutamente sorprendenti, elettricità e strani momenti di sospensione. Quasi un capolavoro di inquietudine, dunque. Tre belle cartucce, in evidente ansia da iperprestazione le spara anche Eric Burdon, il bianco più «nero» d’Inghilterra, leader degli Animals, anima infaticabile di un rhythm and blues raschiato e minaccioso. L’assortita e disordinata tripletta sessantottina degli Animals parte con The Twain Shall Meet, grezza colubrina caricata a canzoni contro la guerra e pura, spigolosa psichedelia; Every One of Us, dove uno potrebbe divertirsi a rintracciare (nel ’68!) l’invenzione del rap in Inghilterra, con il brano Year of the Guru, e un brano monstre come New York 1963 – America 1968, diciotto minuti in cui si dà voce a un pilota nero durante la seconda guerra mondiale, e si sente ripetere a ogni piè sospinto la parola «Freedom», come canterà l’anno successivo Richie Havens a Woodstock, in un set memorabile. Il terzo disco del ’68, e ultimo per la parte più esplosiva della carriera degli Animals è Love Is. Tante cover (anche da Sly Stone e Traffic, tanto per restare sul pezzo), e strane suite stipate di effetti psichedelici che vanno un po’ alla rincorsa di quanto stavano tentando i coevi Pink Floyd. Grande, fruttuoso disordine stilistico, dunque.

PSYCH, PROG E RITORNO

S’è detto spesso, il germe del progressive rock che dal ’69 sarà prassi comune del novanta per cento dei gruppi inglesi è da rintracciare in certe cose dei Beatles. Però nell’annus mirabilis ’68 a sperimentare pallottole progressive rock per colpire nuovi bersagli mobili, ancora indistinti, ci provano in parecchi. Chi ci riesce, ci riesce spesso alla prima. A volte alla seconda. Ad esempio i Traffic in cui milita un giovanissimo Steve Winwood, che ha già alle spalle la proficua gavetta con lo Spencer Davis Group. Nel ’67 primi segni di vita con Mr. Fantasy, un titolo un programma, per la nuova era, nel ’68 arriva il sontuoso disco che porta il loro nome: da un lato c’è il versante folk-rock con i brani di Dave Mason (sua Feelin’ Alright, il classicone soul dell’album) dall’altra la spinta rock e blues di Winwood, e le bizzarre punture ritmiche di Jim Capaldi. Su tutto, ancora parecchia nebbia psichedelica, destinata a dissolversi in uno schiumante jazz rock venato di folk negli anni a venire.

Al secondo colpo è centrato il focus anche per i Pink Floyd, che nel ’68 sono però una creatura musicale in bilico tra il passato futuribile dell’ingestibile Syd Barrett di The Piper at the Gates of Dawn, prima incisione, e il presente di un disco più strutturato, meno naif, con l’ultima traccia lasciata da Barrett in studio, e l’avanzare prepotente di David Gilmour, sostituto «razionale» di Barrett, e Roger Waters che sonda, al momento, il «dark side» della mente con il brano dal titolo, e con il profilo melodico orientale dell’imprendibile, inquietante Set the Controls for the Heart of the Sun. Venature psichedeliche e pop anche nei Deep Purple, che al momento sono ancora un po’ la risposta inglese ai Vanilla Fudge: però nel disco che esce nel ’68, The Book of Talyesin, con gran messe di cover, c’è la micidiale Wring That Neck, che annuncia future esperienze tra prog e hard rock, e il combinato disposto tra la chitarra di elegante furia di Ritchie Blackmore e l’Hammond baroccheggiante di Jon Lord.

Tre le band che, per convezione di molta storiografia rock dal passo un po’ troppo consolidato, traghettano definitivamente il rock verso le sontuose atmosfere progressive, con il grimaldello colto della musica classica: a cominciare dai Nice di Ars Longa Vita Brevis, il trio dove milita un giovane Keith Emerson destinato a ben altre fortune con i futuri Emerson, Lake & Palmer. Il disco col titolo latino offre sulla prima facciata una splendida rilettura prog rock da Sibelius, e sulla seconda il definitivo diradamento delle nebbie beat con una Suite in sei movimenti che, tra l’altro, ammicca con cognizione di causa a mondi lontanissimi come il Bach dei Brandeburghesi e gli spigoli sonori del jazzista Thelonious Monk. Secondo nome da citare i Moody Blues di In Search of the Lost Chord, che già nel 67 avevano tentato l’azzardo prog con Days of the Future Passed, e s’erano fermati a mezza strada. Ci riescono con «la ricerca dell’accordo perduto», che declina in scioltezza echi di psichedelia orientaleggiante con flauti e tabla, sitar, rifermenti neppure troppo criptati alle sostanze psicoattive del Dottor Leary, e tappeti di mellotron. A chiudere la triade, i gloriosi Procol Harum di Shine on Brightly: l’anno prima avevano piazzato il colpaccio di A Whiter Shade of Pale, calcato sull’Aria sulla quarta corda di Bach, nel ’68 escono con il potente Shine on Brightly, rock sinfonico e progressivo tout court, messe da parte le datate radici rhythm and blues, con una lunga concept suite, In Held ’Twas in I, davvero aperta a parecchie sorprese sonore.

C’è un altro signore del prog che nel ’68 mostra di aver preso bene le misure per il futuro, divertendosi a intorbidare le acque già non propriamente cristalline di Sgt. Pepper’s: è Robert Fripp, futuro signore dei King Crimson, tuttora in attività dopo mezzo secolo di dischi, nevrosi e massime sapienziali dispensate come caramelle a bambini golosi. Nel ’68 esce The Cheerful Insanity of Giles, Giles & Fripp, e la strada è spianata per iniziare le danze oscure e luminose assieme, prossime a venire, di In The Court of the Crimson King. E i fratelli Giles saranno a vario titolo di nuovo in gioco. Qui è un pop deviato e ironico, con molto humour british, a volte con spezie jazz, a volte con venature acide. Il ’68 è anche l’anno dell’esordio per un chitarrista tanto venerato dai colleghi, quanto dimenticato oggi nell’ormai imbolsito pantheon dei «grandi del rock»: Jeff Beck con Truth. Eppure la sua chitarra funambolica è presente, a fare i calcoli mezzo secolo dopo, in centinaia di dischi importanti. In Truth c’è mister Rod Stewart alla voce, e il basso palpitante di Ron Wood. Le piste sono quelle che stanno battendo i Cream del doppio album monumentale, in studio e dal vivo, Wheels of Fire, e l’americano Jimi Hendrix, un blues trasfigurato nei watt, ipertrofico e di colpo di nuovo misterioso, ma Jeff Beck qui piazza colpi a ripetizione: ad esempio riscoprendo quell’antica melodia folk inglese, Greensleeves, che da lì in avanti molti metteranno nel carniere delle riserve auree.

I SONGWRITER

L’elenco sarebbe ovviamente ingestibile: facciamo il punto allora su alcune punte eccellenti, e decisive, nell’anno delle rivolte. A partire dal disco più bello e importante di tutti, Astral Weeks di Van Morrison. L’irlandese con la voce da nero, il fuoco melodico gaelico nelle vene, la testa e il cuore in pieno e continuo viaggio tra blues, jazz, soul e rhythm and blues, già con i palpitanti Them, ci regala nel ’68 alla seconda sortita in solo un disco monumentale e leggero come una piuma, volteggio seduttivo infinito di ballate folk che si dilatano nei tempi e sembrano non finire mai. In studio ha una squadra di jazzisti eccellenti, a partire da Connie Kay alla batteria, dal Modern Jazz Quartet, e Richard Davis al basso, lui ci mette voce, chitarra e sax, e crea un classico scontornato dal tempo, avventuroso ancora oggi, ad ogni riascolto.

Dischi invece ne ha già molti all’attivo Donovan, che nel ’68 ha due uscite: il primo «live» della carriera, In Concert, registrato in realtà l’anno prima, e The Hurdy Gurdy Man, un perfetto, compiuto viaggio sulle ali bizzose del raga folk, con voce sussurrata, strani blues sbilenchi, echi di folk antico. Chi lo riscopre oggi e poi ascolta il neofolk cantautorale ha di che farsi girare la testa. E qualcosa di simile potrebbe succedere al riascolto della coppia di dischi sessantottini dei Tyrannosaurus Rex, in realtà un duo dove chi contava era Marc Bolan, futura icona glam-rock: in My People Were Fair and Had Sky in Their Hair… But Now They’re Content to Wear Stars on Their Brows (!) e in Prophets, Seers & Sages – The Angels of the Ages scrive strane, maliarde canzoni in bilico tra folk e psichedelia.

BLUES REVIVAL

E il blues revival, che in Inghilterra fu così importante da spingere a una riscoperta delle eccellenze autoctone negli States? Paesaggio sonoro fitto, stimolante, con band che a volte resteranno fedeli all’idioma, altre che da lì tenteranno altri voli. Nei secoli fedeli alle dodici misure (ancora oggi!) è il grande John Mayall, che nel ’68 fa uscire quattro dischi: Diary of a Band, Bare Wires, Blues Giant, Blues From Laurel Canyon. E collaborerà pure con i Groundhogs di Tony McPhee a caccia di gloria con John Lee Hooker e John Mayall, pubblicando da parte loro il notevole Scratching the Surface. I Savoy Brown rispondono con Getting to the Point , i Fleetwood Mac non ancora «pop» ma blues-rock con Mr. Wonderful, i Chicken Shack con il folgorante esordio di 40 Blue Fingers, Freshly Packed and Ready to Serve. E poi i Ten Years After di Undead, dal vivo: c’è la prova generale di I’m Going Home, che lascerà allibita la platea di Woodstock, l’anno dopo.

Il blues è servito, in salsa sessantottina.