1968. È solo un inizio
Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma ospita una mostra sugli intrecci tra l’arte e il ‘68, a cura di Ester Coen.
Per Ilaria Bussoni, curatrice con Nicolas Martino del giornale-catalogo della mostra, intitolata «È solo un inizio. 1968», il gesto del sessantotto «frantuma quel grande edificio dell’ortopedia collettiva e individuale che ammassa e incasella, rinchiude e alleva dritto, fa la norma e allinea chi devia, che andrà conosciuto col nome di società della disciplina o del Fordismo o della reclusione o delle linee rette».
Quello del ’68 fu un gesto di rottura che cercò di mandare in frantumi la compressione psicocorporea dell’esistenza in cui la nostra civiltà è rimasta intrappolata da almeno un secolo.
Cent’anni fa nelle trincee di un’Europa in guerra si uccideva gasando in massa gli avversari. Uccisione impersonale, incruenta che, pietrificando gli spasmi dei corpi, realizzava il negativo delle convulsioni erotiche: dava rappresentazione visiva, esterna alla «morte che afferra il vivo», che se ne appropria da dentro.
Poco più di vent’anni dopo, gli ebrei venivano gasati, in separata sede rispetto al conflitto bellico che per la seconda volta sconvolgeva il mondo. Essi erano di fatto «assimilati», parte costitutiva della vita europea e dei suoi scambi. Condivisero la loro sorte gli «zingari», popolo senza «fissa dimora» in giro per l’Europa, presenza secolare del suo paesaggio.
Tra lo straniero assimilato e il nomadismo di casa, il bersaglio del nazismo fu il nostro nomade interno, ciò che ci permette di restare eccentrici rispetto a un modo definito, socialmente riconosciuto, di essere.
Il ’68 è situato temporalmente a metà strada tra la «grande guerra» delle trincee e i nostri tristi giorni di grave crisi etica e sociale.
Distante due decenni dallo sterminio, la sollevazione della gioventù di allora è la più importante reazione al processo di de-civilizzazione che erode l’umanità della nostra esperienza, non l’«animalizza», come si pensa, la rende automatica.
A dispetto delle contraddizioni presenti nelle loro azioni, i giovani misero in moto una critica radicale della ragione puramente calcolatrice che, più che nelle teorizzazioni, stava nel loro modo di desiderare, sentire e immaginare.
La prima chiara opposizione del desiderio alla logica dei bisogni. La «convivialità» della vita cittadina: il matrimonio tra l’amicizia disinteressata e l’amicizia politica. L’irrompere dell’immaginazione nel campo politico come eccezione che interroga, destabilizza la regola e, sospendendo l’effettività dell’azione, la rende sperimentale, creativa e mantiene aperto a diverse possibilità il suo compimento.
La sconfitta del ‘68 è andata di pari passo con il ritorno, più nascosto e per questo più insidioso nella sua violenza, dell’inerzia (il vero prodotto di un capitalismo lasciato libero nel suo automatismo) come principio dell’organizzazione collettiva.
La morte è tornata a impossessarsi del vivo in tre campi fondamentali della vita: la produzione di beni, la sessualità e il rapporto tra le generazioni.
Il ’68 sconfitto resta, tuttavia, vivo. Aperto nel proprio gesto, ne mantiene la forza destabilizzante.
Nel conflitto tra i processi trasformativi (Eros) e il principio omeostatico/meccanico dell’esistenza (Thanatos), che deciderà il nostro destino, l’apertura di un gesto ancora giovane che persiste -la memoria del futuro che si fa strada- è il nostro patrimonio più sicuro. La prossimità tra società civile e società politica, tra cultura costituente e potere costituito, la prospettiva di un mondo di cittadini senza obbligo/privilegio di cittadinanza.
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