Il torso nudo, scavato dalle luci e dalle ombre della Laguna come un giovane palo di rovere che, esposto alla salsedine, porta i segni prematuri del tempo. Chinato sul motore del suo barchino, il mozzicone di sigaretta pendente dall’angolo delle labbra serrate, le mani impegnate a scavare nelle profondità del motore, percorrendo gli umori degli ingranaggi, le parti meccaniche ingrassate dall’olio. Svelate dall’acqua opaca, il giovane uomo osserva le pale dell’elica consumate, denti scheggiati che minacciando sorridono, come alludendo a una sfida inevitabile. Riuscire ad andare più veloce anche di un solo nodo, per poter incidere le proprie iniziali nel legno di una delle briccole che puntellano i canali di Venezia e che, consumate dal saliscendi delle maree, ormai diventate un pericolo per le imbarcazioni, sono destinate a durare pochi anni.

La storia raccontata da Atlantide, opera filmica di Yuri Ancarani, è quella verosimile, situata in una zona di prossimità tra la cronaca e la magia, di Daniele Barison, abitante dell’isola veneziana di Sant’Erasmo, dei suoi poco più di vent’anni di vita connotati dai segni di riconoscimento della sottocultura urban contemporanea. Tatuaggi, espressioni affilate, sguardi sfuggenti, colori fluo e cadenze trap, un’esistenza umbratile rispetto al mondo estraneo e parallelo degli adulti. Presentata in anteprima alla 78ma Mostra internazionale del Cinema di Venezia e candidata ai David di Donatello 2022 come miglior documentario, proiettata al MOMA di New York, la pellicola ha trovato un’estensione installativa al MAMbo di Bologna, diramandosi nello spazio espositivo per approfondire vicende, retroscena, dettagli e scorci, raccolti e prodotti nell’arco di circa sei anni di lavorazione e che, nel montato finale, sono rimasti accennati oppure di passaggio.

Curata dal direttore del museo bolognese Lorenzo Balbi e visitabile fino al 7 maggio, questa mostra di immagini in movimento si snoda in una penombra che immerge la maestosa Sala delle Ciminiere e gli ambienti attigui in un’atmosfera onirica. Ad accompagnare il fruitore in un ordinato percorso di progressivo disvelamento delle linee narrative sottese, più spin-off che backstage, è lo spettro luminoso delle proiezioni, riflesse su schermi di dimensioni ambientali e disposti in un dialogo ritmato con gli spazi, come installazioni site specific. Così, questa Atlantide espansa si effonde tra le inquadrature e le sale, adattandosi alle scansioni dell’architettura come un fluido tra vasi comunicanti. Personaggi alternativi, ambientazioni secondarie e argomenti sottotraccia emergono in superficie, animandosi rispetto alla narrazione principale del film, con il quale pure continuano ad agire in sintonia, come in un vibrante intrico di fili sottili.

Opera di finzione senza attori e attrici – l’unica, Bianka Berenyi, compare solo nelle battute finali –, Atlantide «si è lentamente costruita da sola», ha spiega Ancarani, «i dialoghi sono rubati dalla vita reale». Anche senza sceneggiatura, rimane comunque l’impronta autoriale. Vediamo una Venezia di luci vivide che progressivamente scolorano all’alternarsi delle stagioni, inquadrature fisse sui passaggi del giorno e della notte sottolineati dalle musiche originali di Sick Luke e Lorenzo Senni/Francesco Fantini. Risse facili, amori perduti, speranze da inseguire, lunghi, delicati e spietati attimi vissuti da adolescenti su un’isola altrettanto fragile, fugace, sempre sul punto di scomparire. Nella restituzione del MAMbo, questa compenetrazione tra i personaggi e il contesto assume sfaccettature più complesse. Se il film segue principalmente la soggettiva di Daniele fino al suo tragico finale, nel progetto espositivo le storie rimesse in evidenza sembrano espandersi in cerchi concentrici, dalla più piccola alla più grande, andando a comporre la stratigrafia di una città stretta tra turismo di massa e abbandono, sfruttamento delle risorse e desertificazione delle residenze, dove corpi anfibi ed esuberanti guadano l’acqua salmastra, impregnandosi delle sue contraddizioni.

Una cimice in equilibrio su una gomena, una lavatrice trasportata via canale da Burano a Rialto, un suonatore ambulante di fisarmonica che strimpella davanti a un vaporetto in secca, persone che spazzano l’acqua alta dalle proprie case, con una gestualità reiterata tanto paradossale e poetica quanto drammatica e docile, rumorose manifestazioni contro le grandi navi affrontate da schiere di forze dell’ordine in assetto da guerriglia, una folla di ragazze e ragazze riuniti per un concerto, braccia alzate al cielo, gambe scoperte. Insinuandosi da uno schermo all’altro, il flusso di immagini si diluisce e si condensa, dilatando l’attenzione oppure concentrando il punto focale. Sfociando al di là del canale della narrazione, il processo di costruzione e decostruzione della storia esplode in questa proporzione spaziale, assecondando schemi e condizionamenti biologici della corteccia visiva e della memoria, giocando sulla disposizione di tasselli da attivare, interrogare e ridisporre, per definire ciò che ci circonda in una sequenza logica.

Ancarani ha incentrato gran parte della sua ricerca proprio sull’esplorazione delle potenzialità e delle aporie dei linguaggi – documentario, fiction, cronaca – e della percezione, nel trasmettere e comprendere la mutevole essenza che permea gli eventi quotidiani o straordinari, appartenenti alla sfera privata o frazionati nella rappresentazione collettiva. Docente di Videoarte presso la NABA di Milano e l’Accademia di belle arti di Ravenna, Ancarani lavora spesso sul limite tra i media e i messaggi e le sue opere sono state esposte e presentate tanto in musei e gallerie d’arte, dalla Kunsthalle di Basilea al MAXXI di Roma, che in festival cinematografici, quali l’International Film Festival di Rotterdam e il Locarno Film Festival dove, nel 2016, The Challenge, film ambientato nel deserto del Qatar, sulle tracce di un gruppo di sceicchi alle prese con una gara di falconeria, vinse il Premio Speciale della Giuria nel concorso Cineasti del presente. Al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano sarà ospitata prossimamente una sua personale, dal 28 marzo all’11 giugno, curata da Diego Sileo e Iolanda Ratti. Atlantide non solo attraversa questo doppio registro, dalle sale del cinema a quelle del museo, tra presentazione ed esposizione, proiezione e allestimento, ma acuisce la sua natura ibrida, rivelando a un pubblico affezionato all’immagine strutturata della Venezia delle Biennali e delle manifestazioni internazionali le pulsioni sotterranee e borderline che animano la città lagunare ma sembrano lambirla appena.