Visioni

«Youth – Homecoming», Wang Bing e la gioventù del capitalismo cinese

«Youth – Homecoming», Wang Bing e la gioventù del capitalismo cineseUna scena da «Homecoming»

Venezia 81 Presentata in concorso la terza parte del documentario girato tra i lavoratori tessili dello Shaanxi. Il «metodo» è filmare di continuo, per far nascere la fiducia necessaria

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 7 settembre 2024

«I documentari non possono essere limitati da una storia predeterminata; non si può imporre una cornice, una struttura che sono ovvie fin dall’inizio. Si deve fare questo lavoro e vedere dove ti porta. La cosa più importante è creare un legame con i personaggi principali, rimanendo direttamente in contatto con loro e con la loro quotidianità. A partire da qui si può realizzare un film che sia un tutt’uno con la vita reale. In questo film il ritmo del lavoro determina il ritmo delle riprese. Ero costantemente alla ricerca di un modo per rendere chiaro l’andamento delle loro vite».

È così che Wang Bing parla della sua Heimat in Cina, un racconto della giovinezza che si fa specchio di un Paese attraverso ragazze e ragazzi il cui spazio nella società è quello del lavoro. È intorno a questo che ruotano aspettative future e rivolte, sogni e progetti esistenziali: una sorta di marcia forzata che non consente ripensamenti o introspezioni, almeno pubbliche, ma che della consapevolezza di quel quotidiano fa una resistenza esistenziale. Homecoming è il terzo capitolo di Youth, Giovinezza, il primo, Spring (2023) è stato presentato a Cannes, il secondo, Hard Times (2024) a Locarno dove ha avuto la menzione speciale della Giuria, questo terzo è arrivato in finale di competizione veneziana, mentre già da qualche giorno, passato l’incanto Lady Gaga e il tornado meteorologico è iniziato il consueto gioco del «chi vincerà il Leone?».

L’HEIMAT di Wang Bing, nato nella regione dello Shaanxi che è il paesaggio umano dei suoi film, sono le fabbriche tessili della Cina neoliberista dove migliaia di giovani lavorano in condizioni molto dure, sottopagati, con ritmi molto serrati, devono spesso lottare per avere gli stipendi. Siamo in prossimità delle vacanze di Capodanno, molti operai sono tornati a casa e chi non è ancora partito aspetta con ansia lo stipendio per tornare a casa e festeggiare in famiglia. C’è chi ha pianificato il matrimonio, chi porta a casa la fidanzata, nel cielo giallo di inquinamento l’orizzonte sembra soffocare, ma a nel villaggio dove sono nati non c’è molto per nessuno di loro.

COME PER GLI ALTRI capitoli il «metodo» è filmare di continuo, montando il materiale girato (moltissime ore) perché è in questa relazione costante fra la macchina da presa e ciò che gli sta intorno che può nascere la fiducia necessaria e quella reciprocità in cui si coglie un’epifania di vero.
Wang Bing in questo è magistrale, non smette mai anche se rispetto ai suoi primi lavori ha mutato la prospettiva di osservazione.
Ritorno a casa – dice il titolo. Ma come? Per molti, quasi tutti, questo tornare è l’ulteriore affermazione di come la macchina capitalista divora le loro vite. Questa gioventù che si muove fra i macchinari, come sappiamo anche qui spesso a rischio di vita, i, casermoni, ballatoi di cemento; i dormitori, dove giocano a carte, ascoltano canzoni, scherzano, si innamorano ha però un desiderio, si divide nelle angosce e nei progetti per il futuro, e la realtà non è immutabile come per le vecchie generazioni, loro sembrano più attenti a come resistere alla repressione per affermare una possibile gioia di vivere.

Filmare la fabbrica, e dunque il lavoro, è una delle sfide più complesse che la realtà pone al cinema e non solo documentario, Wang Bing come pochi sa mettersi all’ascolto delle sue dinamiche senza ingabbiarne il tempo e il conflitto in una dimensione ideologica. Ciò che rappresenta con chiarezza film dopo film è sicuramente un’analisi del capitalismo cinese e delle sue contraddizioni, delle facciate ipocrite del potere con le sue promesse di un futuro di benessere per tutti. Ma la sua «indagine» avviene mettendo la macchina da presa in profondità, sono le esistenze di chi manda avanti questa macchina produttiva a rivelarne le crepe, e la violenza che esercita su ciascuno. In quel movimento quotidiano che affronta la sua lotta col mondo c’è la storia e c’è il presente, che questo suo filmare colgono nella loro verità ancora una volta in questo film, di certo fra i più belli visti qui, per quel suo porsi senza proclami né sovrastrutture. La sua potenza sono le immagini e la capacità di guardare nel mondo.

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