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Yehoshua, messa in scena di un processo identitario

Yehoshua, messa in scena di un processo identitarioBen Shahn, «The burial society», 1944

Grandi dialoghi/6 Lo scrittore israeliano sceglie, per «Il signor Mani», una forma che presuppone la presenza di un altro, di cui non si può sentire la voce

Pubblicato più di un anno faEdizione del 6 agosto 2023

«La punizione è il farsi della memoria», scrive Nietzsche: ovvero, soltanto in quanto accusato e convocato a dare conto delle proprie azioni, l’io può emergere. Rispondendo all’accusa, l’io si dichiara colpevole o innocente: mentre si racconta davanti a un tribunale che lo vede imputato per la sofferenza dell’altro, via via l’io si definisce. È  dalla paura della punizione, dunque, che nascerebbe il racconto di sé, e di conseguenza la configurazione del proprio io.

Che A. B. Yehoshua abbia costruito Il signor Mani come un’inchiesta identitaria, sviluppata in un dialogo più o meno accusatorio con l’altro e sull’altro è evidente fin da subito: le domande, infatti, cominciano già dal titolo: Il signor Mani, ovvero «ma ani?» – che in ebraico suona «io cosa sono?» – è l’oggetto dell’inchiesta. Per rispondere, Yehoshua costruisce un percorso in cinque tappe che si muovono a ritroso nel tempo. Ognuna di queste tappe si compone di una conversazione della quale è riportata la voce di soltanto uno dei due interlocutori, tutti legati in maniere diverse alla storia della famiglia Mani. Yehoshua sceglie dunque una forma che presuppone la presenza di un altro di cui non si può sentire la voce: l’effetto è quello di ascoltare qualcuno impegnato in una conversazione telefonica. E, infatti, già nel primo segmento del romanzo, si allude a questa esperienza: le telefonate, quelle fatte e quelle perse, hanno un ruolo importante nello sviluppo della vicenda e della conversazione. Non avendo a disposizione una parte del dialogo, i lettori sono chiamati a prendere il posto dello scrittore: «Un libro meraviglioso che io devo leggere e scrivere al tempo stesso», così definisce l’inchiesta che gli è stata affidata il tenente che nel terzo monodialogo è incaricato di giudicare l’operato di uno dei tanti signor Mani che popolano il romanzo.

Ogni monodialogo è anticipato e preceduto da una descrizione della vita dei personaggi, prima e dopo il momento isolato narrativamente. Da una tappa all’altra, in una fitta rete di allusioni, il tracciato dei diversi signor Mani viene delineato di generazione in generazione, isolando momenti chiave della storia del popolo ebraico, secondo il modello delle toledot – al contempo genealogia, storia di questa genealogia, storia o cronaca tout court. Di generazione in generazione, ne Il signor Mani questo movimento si sviluppa a ritroso nel tempo, nello spazio e nella lingua scelta da Yehoshua, (togliere virgola) che si muove con il racconto: scritto integralmente in ebraico, il romanzo ospita al suo interno anche altre lingue. Se la prima conversazione per una voce sola si svolge in ebraico, la seconda si deve immaginarla in tedesco, la terza in inglese, la quarta in yiddish, la quinta in ladino. Lavorando attentamente sulla sintassi e sul lessico, rendendo letteralmente espressioni di altre lingue, Yehoshua compone così in ebraico dialoghi pronunciati in altre lingue e in epoche e contesti sociali molto diversi: dal qibbutz Mashabé Sadé nel 1982 all’Atene del 1848, passando per Creta nel 1944, Gerusalemme nel 1918, e la Galizia nel 1899.

Tutti questi elementi costruiscono un complesso percorso che si sviluppa come messa in scena di un processo di costruzione identitario. ll verdetto si trova nell’ultima sezione, dove Abraham Mani supplica Rabbi Shabtai, vittima di un colpo apoplettico che lo rende incapace di parlare, di esprimersi sul proprio operato. In realtà, Abraham si è già giudicato e condannato da solo «alla massima pena» e ora si presenta di fronte a un rabbino incapace di articolare la parola per estorcergli quella sentenza che egli stesso ha già pronunciato, assumendo il ruolo dell’accusa. Nella scena finale, il signor Mani si racconta e si definisce come colpevole anche dell’assenza altro, formalmente espressa nell’uso del monologo che, contrariamente al resto del romanzo, prende il sopravvento solo in questa parte conclusiva della narrazione.

La fine della possibilità di un dialogo coincide con la fine dell’inchiesta sull’io e viceversa: occupando allo stesso tempo il posto dell’io e quello dell’altro, il signor Mani si esprime in una modalità narrativa che non consente repliche, interruzioni, obiezioni. La solitudine di questo individuo è quella che ciascuno di noi sperimenta quando si ritrova a voler dire qualcosa, ma realizza che è ormai troppo tardi, perché l’altro non c’è più; o troppo presto, perché l’altro non c’è ancora. È in questa assenza che ci convinciamo di essere davvero noi stessi, se non addirittura la versione migliore di noi stessi: ciò che avremmo voluto essere nel passato o speriamo di essere nel futuro e che, più di tutto, è nostalgia per un altro con cui avremmo, ancora o già, voglia di parlare. Proprio per questo, il monologo finale de Il signor Mani si risolve non solo nell’ammissione di quella colpa che costituisce l’io ma, anche, nella più chiara dichiarazione del fatto che l’io si definisce a partire dal lutto dell’altro: la sua assenza ci costringe a interpretare anche la sua parte, in quelle conversazioni che non potremo più avere.


Il dialogo
da Abraham Yehoshua, Il Signor Mani, Einaudi, 1994

“Ma anche se è vero che sono sparita, mamma, sono sparita solo per poco, che ragione avevi di preoccuparti tanto…

  – Ma io si che ho telefonato, mamma. Ho telefonato eccome, mercoledì sera, da Gerusalemme…

  – Certo, mercoledì ero ancora a Gerusalemme, anche ieri…

  – Anche ieri, mamma, sì, e anche oggi, ma avevo lasciato un messaggio…

  – Com’è che non l’hai avuto?

  -Oh, Dio santo, mamma, non dirmi che il mio messaggio è andato perso un’altra volta!

– Che ne so… «chi mi ha risposto al telefono…

  – Uno dei ragazzi tedeschi venuti a lavorare qui…

  – E io cosa ci potevo fare, mamma? Non è mica colpa mia se in tutto il kibbuz non c’è nessuno disposto a rispondere in refettorio, dopo cena, perché nessuno ha voglia di mettersi a correre, al freddo, fra le case, a cercare chi vogliono al telefono. Provati tu, una volta, a telefonare al kibbuz di sera tardi, d’inverno, e a parlare in inglese, da lontano, con un ragazzo mezzo drogato, che non sa più come si tiene una matita in mano, e allora forse capirai che non è poi così giusto da parte tua ostinarsi con tanto fanatismo contro l’installazione di telefoni personali, come se la vittoria o la sconfitta del socialismo dipendessero dai telefoni. In altri kibbuz il telefono in ogni appartamento fa già parte della vita quotidiana…”

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