Nuova Zelanda, Sudafrica, Francia, Irlanda. I pronostici dicono che sarà una di queste quattro squadre a sollevare la William Webb Ellis Cup la sera del 28 ottobre prossimo allo Stade de France di Parigi. La decima edizione della Coppa del mondo di rugby parte domani sera con il big match tra Nuova Zelanda e Francia (diretta tv su Sky Sport Arena e Raisport, 21:00) e si concluderà tra 51 giorni. Venti squadre suddivise in quattro gironi, 48 partite. Nove stadi che ospiteranno le sfide. Una mega-kermesse che quest’anno celebra non soltanto la sua decima edizione ma anche i duecento anni dalla nascita del rugby: la leggenda non indica una data esatta ma soltanto l’anno, il 1823, e il luogo, il Bigside, il grande prato verde di pertinenza del college di Rugby dove, durante una partita di football, il giovane studente William Webb Ellis afferrò la palla con le mani e si mise a correre in avanti. Gesto eversivo, contrario alle regole, che avrebbe dato origine al gioco del rugby. Ancora oggi nessuno è in grado se questo accadde davvero, siamo chiaramente nei dintorni della leggenda, ma siccome le leggende piacciono, sono necessarie, la questione è rimasta lì, in buona parte irrisolta. Sappiamo per certo, invece, che furono gli studenti di Rugby a riunirsi in assemblea il giorno 7 settembre 1846 per definire per la prima volta le regole del gioco. In questa storia lunga due secoli la Coppa del mondo fa la parte dell’ultima arrivata, a lungo osteggiata. A volerla erano le grandi nazioni dell’Emisfero Sud (Australia, Nuova Zeland, Sudafrica) e i francesi, risolutamente contrarie le quattro home unions britanniche (Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda) schierate in difesa della tradizione, del proprio status di nazioni fondatrici, e del dilettantismo come codice etico e culturale del gioco del rugby. Possiamo dirlo: quando nel 1985 la proposta di dare vita a un torneo mondiale fu approvata, tutto l’impianto ideologico che per più di un secolo e mezzo aveva sorretto il mondo della palla ovale venne giù e tutti capirono che da lì a poco il rugby avrebbe mutato pelle per sempre.

PRIMA EDIZIONE nel 1987. In Nuova Zelanda. Organizzazione un po’ approssimativa, contratti televisivi firmati soltanto mezz’ora prima del match inaugurale, tanti interrogativi: “Funzionerà, questa cosa nuova?”. Sì, funzionava. Vinsero gli All Blacks, che giocavano in casa e avevano una squadra fortissima. Tempo otto anni, siamo nel 1995, e venne giù anche il muro eretto a difesa dello status amatoriale del rugby che da baluardo insormontabile era divenuto un’ipocrita pecetta: i soldi giravano, gli sponsor accorrevano, i contratti erano miliardari, il professionismo era un dato di fatto. Fine della storia, o almeno di quella prima, gloriosa lunga parte indissolubilmente alle sorti ormai decadute dell’Impero Britannico. La coppa del mondo del 1995, vinta dal Sudafrica, ha segnato la fine di un’era e di quella che per centosettant’anni era stata l’identità storica del rugby. Da allora World Rugby, l’ex International Rugby Board, ha fatto il possibile per dare al gioco una nuova anima e una dimensione non più limitata a venti, venticinque nazioni, ma planetaria, propria di uno sport giocato ovunque. Missione fallita. La Cina occupa l’82esima posizione nel ranking mondiale, l’India è all’86° posto, l’Indonesia il 105°. Negli Stati Uniti il rugby non prova nemmeno a competere con il football americano e la Russia (sanzioni a parte) arranca. Delle 208 nazioni del mondo soltanto 132 risultano affiliate a World Rugby. Dal 1987 a oggi le nazionali che hanno preso parte alla fase finale della Coppa del Mondo sono state sempre le stesse. Quest’anno c’è la novità del Cile, le altre 19 sono tutte vecchie conoscenze. Il gioco è cambiato, le regole sono state modificate per tutelare la salute dei giocatori e c’è maggior severità nel punire i falli pericolosi. Eppure alcune federazioni devono fronteggiare le class action promosse da oltre 200 ex giocatori per i danni subiti nel corso della carriera. Si gioca molto, troppo, e il gioco è divenuto sempre più veloce: più muscoli, più potenza, impatti sempre più pericolosi, infortuni sempre più frequenti. Il professionismo ha significato anche questo. E’ un problema? Lo è, lo sanno tutti, ma nessuno ha ancora trovato una soluzione anche perché nessuno osa avanzare la proposta più sensata – diminuire i match disputati nel corso di una stagione – perché gli sponsor, i fondi di investimento, le televisioni storcerebbero il naso. The show must go on.

Le 4 favorite

Quattro gironi e quattro grandi favorite. Gli All Blacks sono favoriti perché lo sono sempre, anche quando le cose sembrano andare storte. La Francia perché gioca in casa e perché è molto forte. Il Sudafrica è favorito perché è campione in carica e difficilmente sbaglia i grandi appuntamenti, inoltre ha rifilato una scoppola agli All Blacks (35-7) due settimane fa. L’Irlanda è favorita perché è in testa al ranking mondiale, ha trionfato nel Sei Nazioni e da due anni sta battendo tutti gli avversari, però non è mai riuscita ad andare oltre i quarti di finale e questo è un precedente che può minarne la fiducia. Uno dei sorteggi più demenziali nella storia della manifestazione ha però fatto sì che le quattro favorite si siano ritrovate tutte nella parte alta del tabellone, con il rischio (se non la certezza) di sfide incrociate fin dai quarti. L’Italia non ha alcuna chance di superare per la prima volta nella storia i gironi di qualificazione. Per un semplice motivo: è finita nel girone A, con Francia e All Blacks, e passano le prime due. Esordirà sabato (ore 13:00) a Saint Etienne contro la Namibia, avversario alla portata degli azzurri ma da non prendere sottogamba. Poi ci sarà la sfida con l’Uruguay il 20 settembre a Nizza, infine gli All Blacks (29/9) e i francesi (6/10), entrambi a Lione.

Il girone B è quello di ferro: ci sono Sudafrica, Irlanda, Scozia, Romania e Tonga. Se le prime due sono le favorite per il passaggio del turno, la Scozia (quinta nel ranking) potrebbe sgambettare una delle due. Le due qualificate si ritroveranno probabilmente nei quarti Francia e Nuova Zelanda. Il girone C vede insieme Australia, Galles, Figi, Georgia e Portogallo. Sulla carta australiani e gallesi sono i favoriti per il passaggio del turno ma entrambe le squadre vengono da una stagione tra le peggiori degli ultimi anni. Il Galles è una squadra in via di ricostruzione; l’Australia è in piena crisi, male nel Championship dell’Emisfero Sud, travolta dai francesi nell’ultimo impegno prima dei mondiali. Figi, che ha sconfitto gli inglesi al Twickenham, medita il colpaccio. Il girone D raggruppa Inghilterra, Samoa, Giappone, Argentina e Cile. I Pumas, in buona forma, hanno buone possibilità di passare ai quarti e potrebbero chiudere al primo posto. L’Inghilterra (8° posto nel ranking, mai così in basso) naviga in pessime acque ma si è ritrovata in una poule tutto sommato facile perché né il Giappone né Samoa appaiono avversari temibili. La sfida di sabato (21:00) tra il XV della Rosa e l’Argentina sarà un momento della verità.