Wole Soyinka, rituali e tradimenti
Nelle nazioni che furono colonie dei grandi imperi europei, in particolare in quelle che hanno raggiunto l’indipendenza nel secondo dopoguerra, il dibattito sulla definizione della nuova identità nazionale ha trovato nella letteratura una alleata privilegiata. Tra le pagine di molti romanzi, infatti, la scrittura della nazione è diventata un terreno di disputa e di negoziazione, uno spazio di immaginazioni competitive dei diversi interessi ideologici e politici presenti al momento dell’Indipendenza, e durante il difficile periodo seguente. Le nazioni che uscirono dal colonialismo britannico, tra cui India, Kenya, Nigeria, Ghana, cominciarono a venire raccontate come spazi di trasgressione e di attraversamenti di confine, dove l’instabilità tornava a riproporsi come un tratto distintivo.
L’intreccio di relazioni che il fenomeno del colonialismo aveva messo in moto nel corso del suo sviluppo storico non si limitava a rievocare un solo contesto, richiamandone invece molti e diversi altri attorno a sé. Autori fra cui Salman Rushdie, Chinua Achebe e Wole Soyinka si impegnarono a mostrare come la letteratura possa funzionare da strumento per la costruzione di uno spazio nazionale condiviso: uno spazio, dunque, non limitato a quel ruolo di «allegoria» che Frederic Jameson indicava nel suo saggio del 1986, Third-World Literature in the Era of Multinational Capitalism, bensì assimilabile a una «formazione del discorso», formula che filosofo marxista, statunitense di origine indiana Aijaz Ahmad riprese da un concetto di Foucault per indicare un’entità complessa, che contiene sia le narrazioni della resistenza anti-coloniale e del complicato assetto del post-indipendenza, sia il racconto del dissenso interno contro i nuovi poteri, e il conseguente transculturalismo.
«Africanità» e slancio creativo
È questa la prospettiva adottata anche da Wole Soyinka, che sfuggendo da sempre alle categorizzazioni della critica letteraria, e rifiutando l’etichetta di autore postcoloniale, torna a riproporre la coincidenza fra la sua esuberanza creativa e la sua africanità, fra le pagine di Cronache dalla terra dei più felici al mondo, uscito nel 2021 e ora tradotto magistralmente da Alessandra Di Maio, una delle maggiori studiose in Italia di letterature africane anglofone, che si è destreggiata con serietà e precisione fra inglese e yoruba, restituendoci una storia profondamente nigeriana e al contempo universale (La nave di Teseo, pp. 562, € 24,00).
Quasi cinquant’anni separano questo romanzo dall’ultimo libro di finzione pubblicato da Soyinka, nato nel 1934 ad Abeokuta, nella Nigeria occidentale di cultura yoruba, e poi trasferito a Leeds e dunque a Londra, dove lavorò per il Royal Court Theatre, per poi tornare a Ibadan negli anni Sessanta, dove prese parte attivamente alla vita culturale di quel mondo in transizione, dirigendo la rivista Black Orpheus e collaborando a Transitions.
Di questi anni è la sua battaglia contro il concetto di negritudine sostenuto da Senghor, Césaire, Damas e altri intellettuali francofoni, che Soyinka considerava ancorato a vecchi modelli coloniali: «una tigre non proclama la propria tigritudine – ebbe a dire – la mette semplicemente in atto».
Per la sua scrittura di finzione, Soyinka attinge alle divinità del pantheon yoruba, eleggendo a suo alter-ego il dio Ogun – fabbro e cacciatore, divinità del ferro e del tuono, della distruzione e della rigenerazione. I diversi livelli di esistenza previsti dalla cosmogonia yoruba – vivi, morti e non ancora nati, oltre al culto degli antenati e alla figura inquietante dell’abiku (il bambino venuto al mondo e poi morto che torna a tormentare la madre, presente anche nel romanzo La via della fame di un altro nigeriano, Ben Okri) convivono dialogando con le preoccupazioni del presente per le politiche governative, la corruzione, l’ingiustizia sociale, la privazione delle libertà. Arrestato nel 1965 per aver criticato un politico accusato di brogli elettorali, Soyinka trasse dall’esperienza del carcere i materiali riversati in L’uomo è morto e nel secondo romanzo Stagione di anomia, dove alterna l’analisi di una società cupa e corrotta all’uso della satira. La presenza di questi stessi elementi torna a farsi più radicale nel suo ultimo romanzo, che riprende fra l’altro i temi della prima opera in prosa, Gli Interpreti (del 1965), ambientato nella Nigeria della post-indipendenza, dove cinque amici provenienti dal ceto intellettuale e benestante si fanno interpreti di simboli legati alla loro cultura e alla cosmogonia yoruba.
Qui, in Cronache dalle terre dei più felici al mondo, Soyinka racconta la storia della Banda dei Quattro, ex compagni di università in Inghilterra che tornano a vivere in Nigeria, dove vengono travolti dalla corruzione, dal crimine e da un clima di terrore. Coinvolti in una società segreta i cui componenti appartengono all’élite religiosa e politica del paese, i quattro amici di cui Soyinka si serve per comporre il quadro di una società tradita, vengono trascinati nel commercio di organi umani ad uso sacrificale.
Fra le figure del romanzo, Sir Goddie è un politico che intraprende una tournée internazionale per smentire le accuse rivolte al suo paese, ovvero di essere il più corrotto al mondo, e dimostrare che nella sua nazione vive gente incredibilmente felice. Fra tutte, la figura più spiazzante e meglio disegnata è quella di un guru religioso, Papa Davina, che fondando la comunità spirituale di Ekumenika contribuisce a rendere possibili fatti indicibili e terrificanti.
Le sue parole all’inizio del romanzo rendono bene l’idea del personaggio: «In tanti, compresi i nostri concittadini, descrivono questa nazione come un vasto cumulo di letame. Ma vede, chi lo fa intende essere sprezzante. Io, al contrario, credo che questo sia un motivo di gioia. Se il mondo produce letame, il letame deve pur accumularsi da qualche parte. E se la nostra nazione è davvero il cumulo di letame del mondo, significa che stiamo rendendo un servizio all’umanità. È una questione di prospettiva, capisce?».
Un robusto sense of humour, che non prende mai troppo sul serio il potere, contribuisce al godimento derivato da una scrittura complessa e esuberante, che si traduce in una inesausta inventiva letteraria, al servizio non tanto di una allegoria nazionale quanto della costruzione di un paese che per certi versi nasconde il male e per altri lo esibisce, dove convivono i diversi elementi della cultura nazionale: dalla mitologia yoruba alla fede cristiana, dall’influenza della cultura americana a quella asiatica, un po’ come avveniva nella rappresentazione del Pakistan in La Vergogna di Salman Rushdie.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento