Alias Domenica

William Vollmann, tutto ciò che ho visto quando ero vivo

William Vollmann, tutto ciò che ho visto quando ero vivoCarolyn Drake da «Two Rivers», 2007-2013

Interviste letterarie Incontro con William Vollmann, che domani sarà a Cinecittà. Della sua opera sulla violenza in sette volumi, minimum fax ha appena riedito «Come un’onda che sale e che scende»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 11 settembre 2022

Nei manuali di letteratura americana contemporanea, William T. Vollmann si è guadagnato da tempo un capitolo di grande rilievo riuscendo a scardinare il confine tra fiction e nonfiction e cimentandosi con i generi letterari e le forme di scrittura più disparate: dal romanzo storico all’autofiction, dal reportage di denuncia al saggio filosofico, dalle short stories agli sketch autobiografici. Da un lato, la sua narrativa più sperimentale è sempre frutto del felice connubio tra un’immaginazione apparentemente inesauribile e l’esperienza ottenuta sul campo, supportata da un meticoloso lavoro di ricerca. Dall’altro, i narratori autobiografici delle sue opere di nonfiction rifiutano con decisione l’autoriflessività, l’ironia e il cinismo tipici della sperimentazione postmoderna, invitando i lettori a riflettere senza pregiudizi sulle grandi questioni morali e culturali del nostro tempo. Ne è un esempio fra i più significativi la storia globale della violenza in sette volumi, che Vollmann ha pubblicatato negli Stati Uniti nel 2003: di quest’opera monumentale, minimum fax ripropone ora una edizione ridotta, con una nuova introduzione dell’autore, intitolata Come un’onda che sale e che scende Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza (traduzione di Gianni Pannofino, pp. 986, € 25.00).

La conversazione che segue si è svolta a Roma, dove Vollmann tornerà domani, per un incontro a Cinecittà, epilogo del suo tour italiano, la cui tappa più importante è stata al Festivaletteratura di Mantova, giovedì scorso.

Comporre una storia globale della violenza nel corso dei secoli proponendo un calcolo morale per stabilire se e quando sia giusto ricorrervi sembrerebbe il traguardo di una vita per ogni scrittore. Eppure lei ha concepito questo progetto estremamente ambizioso già intorno ai vent’anni. Com’è nata l’idea?
Nel 1980 ero uno studente universitario e il movimento antinucleare reclutava quelli che chiamavano «gruppi di affinità», piccoli organi decisionali autonomi e consensuali ispirati ai gruppi della Gurra civile spagnola. Il piano prevedeva che tutti i gruppi di affinità accettassero la nonviolenza e che lo slogan fosse: «La centrale nucleare non si farà». La Guardia Nazionale spruzzava gas lacrimogeni, colpiva con i manganelli e così via, e tutti noi manifestanti reagivamo in modo nonviolento; ma i giornali scrissero il contrario. Ovviamente, la centrale nucleare venne costruita lo stesso, e così mi ritrovai a pensare: supponiamo che, entro un certo numero di anni, diecimila persone verranno uccise a causa della centrale. Avrebbe senso, da un punto di vista etico, ammazzarne novemila per evitare la morte di quelle diecimila? Sono domande orribili, che tuttavia i militari si pongono di continuo: «Vediamo, quanti uomini perderò per catturare questa collina?» E, d’altra parte, il terrorista pensa: «Quante persone posso uccidere per raggiungere il mio obiettivo?» Cominciai dunque a chiedermi come fosse possibile capire quando è giusto usare la violenza, quali scuse fossero accettabili e come analizzarle.

Richard Slotkin ha descritto l’America come una «nazione di pistoleri» impegnata fin dal periodo coloniale in una sistematica «rigenerazione attraverso la violenza». Non tutti gli studiosi concordano, ovvio; certo è che le reazioni violente quando si mette in discussione il diritto di possedere armi non lo smentiscono. Lei ritiene che l’investimento, simbolico e pragmatico, nella violenza di un gran numero di cittadini statunitensi sia particolarmente connotante?
Ricordo che subito dopo il massacro di Columbine, quando furono uccise una ventina di persone, mi trovavo ad Antioquia, in una zona rurale della Colombia, e tutti mi ridevano in faccia: «Andiamo, Bill. Te la prendi così per l’uccisione di venti persone; ogni settimana, in qualsiasi città di questa provincia, basta andare al ponte per trovarci venti teste decapitate». Certamente, ogni paese è violento per motivi diversi, ma per un verso gli americani hanno una mentalità di frontiera e per altro verso è vero che, nel corso del tempo, le aziende e il governo ci hanno sottratto molte prerogative. Negli Stati repubblicani, il diritto di portare armi è una facile illusione di libertà: non è una questione di difesa della propria sicurezza, piuttosto ti fa sentire come al cinema. Quando la gente si preoccupa che i democratici vietino le armi non è perché ne hanno davvero bisogno, però intanto si arrabbiano. Politici senza scrupoli ci sottraggono il diritto all’assistenza sanitaria, il diritto all’aborto in alcune parti del paese, il diritto all’acqua potabile, e in cambio cosa danno? Il diritto di portare le armi. Ne posseggo anch’io e ne sono felice. È vero che in America la violenza è aggravata dalle armi, ma più vero ancora è che essa è intrinseca alla natura umana: durante le rivolte per la spartizione dell’India e del Pakistan molti si sono uccisi a vicenda con le pietre.

Lei ha mai elaborato, nel corso delle sue ricerche, qualche strategia per ridurre la violenza?
Lavorerei sul sistema educativo, come ho tentato di fare in West Virginia, dove sono stato per scrivere Carbon Ideology sull’estrazione del carbone. Lì prima hanno tagliato i grandi alberi per la carta. Poi hanno iniziato a estrarre il carbone. Gran parte della zona è inquinata. L’acqua di dilavamento del carbone è così acida da far marcire i denti. Ci sono posti in cui si beve il caffè ed è verde. Eppure la gente è ben disposta, credono tutti che Dio abbia messo lì il carbone e pregano per le compagnie carbonifere, che a loro volta rispondono: «Non vi possiamo assumere perché i socialisti di Washington hanno reso tutto troppo costoso». Naturalmente, la verità è che, grazie all’automazione, una macchina può fare quello che prima facevano cento uomini. In West Virginia mi rispettavano perché avevo frequentato l’università, ma se nei miei ragionamenti prendevo in considerazione il resto del mondo mi dicevano: «Non ci interessano queste idee cosmopolite».

La sua produzione letteraria è un insieme eterogeneo ma coerente: dato che ogni libro si collega in molti modi a tutti gli altri, è come se lei fosse costantemente impegnato a risolvere un cruciverba su più livelli. Considera «Come un’onda che sale e che scende» una summa dei temi e delle preoccupazioni della sua scrittura?
Probabilmente tutti gli scrittori ritengono che il loro libro in uscita o quello a venire sia la summa del loro pensiero. Certo è che senza Come un’onda che sale e che scende non avrei potuto scrivere Europe Central. E ora ho quasi finito il mio romanzo più lungo in assoluto: si intitola A Table for Fortune e si concentra sulla Cia, sull’11 settembre e sulla tortura, oltre che sulla mia esperienza degli anni in cui ho dormito in campi per senzatetto. Ho intervistato persone della Cia e ho fatto ricerche negli archivi della Stasi. Dopo la caduta della Germania dell’Est sono diventate accessibili molte fonti alle quali non si può attingere negli Stati Uniti. Quindi sento che il prossimo sarà il mio libro migliore, o almeno mi piace crederci: è un romanzo, ma ho cercato di renderlo il più accurato possibile. Il mio povero editor alla Viking mi ha detto: «Bill, per favore, non farlo diventare un altro dei tuoi libri da mille pagine». E io: «Non preoccuparti, le pagine sono tremila e il protagonista nasce a pagina ottocento». C’è stato un lungo silenzio.

Alla fine dei suoi libri, lei a volte ha raccontato le sue divergenze di opinione con gli editori o i redattori su alcuni dettagli, sulla lunghezza dell’opera o sul titolo. Come descriverebbe il suo rapporto con l’editoria statunitense?
C’è stato un periodo, prima che vincessi il National Book Award, in cui si stavano stancando di me perché i miei libri non vendevano bene. Dopo mi hanno dato un po’ più di corda per impiccarmi. E ora si stanno stancando di nuovo. Da un punto di vista commerciale, non posso biasimarli: il mondo non mi deve nulla, loro non possono dirmi come scrivere un libro e io non posso obbligarli a comprarlo.

Lei dedica una cura maniacale all’organizzazione del materiale bibliografico dei suoi libri. Tutte le note a piè pagina, le cronologie e i glossari alla fine dei «Sette sogni» sono quasi racconti all’interno dell’intreccio principale, e sono essenziali per la lettura. A volte cambiano persino la prospettiva degli eventi narrati.
Poiché ho definito I sette sogni una storia simbolica, se voglio affermare la verità di quanto racconto, anche se non in senso letterale, è giusto che dica al lettore quali sono le parti che ho inventato. Ed è piuttosto triste che ora nelle versioni in brossura dei miei libri, almeno per quanto riguarda gli editori americani, questi materiali non vengano più stampati. L’edizione economica di The Dying Grass, per esempio, non ha la cronologia, i glossari e le fonti. E Carbon Ideologies non lo stampano affatto, si trova solo online. In qualche modo tutto ciò degrada l’esperienza della lettura, ma che posso farci?

Nel suo romanzo storico «I fucili», il passato «invade» il presente: il suo alter-ego autofinzionale agisce sia nel presente, sotto le spoglie di Capitan Subzero, sia nel passato, identificandosi con l’esploratore ottocentesco britannico Sir John Franklin. Come ha ideato questa tecnica narrativa così originale?
Quando stavo scrivendo La camicia di ghiaccio mi trovavo in Groenlandia e ho vissuto un momento molto inquietante, ma bellissimo. Ero con un giovane Inuit che aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri, evidentemente era figlio di uno dei tanti rapporti che le donne inuit intrattenevano con i balenieri. Mentre parlavamo, lui uccideva gli uccelli con una fionda nella tundra. A un certo punto ho guardato dietro di me e ho visto passare una gigantesca petroliera. Poi mi sono rigirato verso quella tundra, che manteneva lo stesso aspetto da secoli. «Dove mi trovo?» ho pensato mentre vedevo scorrermi davanti il passato e il presente allo stesso tempo. E mi sono detto che avrei voluto scriverne, perché mi comunicava la speranza di poter dire che il passato non è davvero passato. Ho chiamato I sette sogni «un libro di paesaggi nordamericani», perché offre un modo di entrare nel passato essendo fisicamente presente in esso, attraverso una combinazione di descrizioni paesaggistiche e ricerche d’archivio. È una specie di interazione che ritengo sia importante realizzare ogni volta in modo diverso, per evitare che diventi una formula. Così, mentre scrivevo The Dying Grass, ho pensato: «Stavolta non voglio imparare troppo sulla guerra dei Nez Perce prima di scrivere, perché l’ho già fatto nei romanzi precedenti. Proviamo a visitare alcuni di questi campi di battaglia senza sapere com’è andata e a descriverli così come sono». In questo modo i luoghi parlano con la loro voce, non sono mediati dai miei presupposti e pregiudizi. Poi, quando ero arrivato forse al 30% del libro, mi sono detto: «Ora è tempo di tornare indietro e cominciare a capire davvero». Il risultato è che in quel romanzo si entra e si esce continuamente dalla coscienza dei personaggi.

L’anno scorso ha pubblicato un articolo sul periodo trascorso da Melville alle isole Marquesas. E, all’inizio di «Come un’onda che sale e che scende» si avvertono echi del famoso capitolo di Moby-Dick sulla bianchezza della balena – i riferimenti al pallore della morte, «la sposa vestita di bianco, destinata a mutarsi ben presto in ossa ingiallite»…
Lei allude a un mio pezzo uscito sullo «Smithsonian», che è stato tagliato di circa il 75%: il resto lo leggerà quando uscirà il libro di saggi che sto scrivendo, se sopravviverò e riuscirò a finirlo. Ho molte cose da dire su Melville: una delle sue opere che ho sempre ammirato ma che credo non sia abbastanza apprezzata, è Le Encantadas. E ovviamente, ogni volta che rileggo Moby-Dick mi piace di più. Mi interessa tornare ad alcuni scrittori per vedere come invecchiano: Faulkner, naturalmente, resta un genio dal punto di vista stilistico, e molto di ciò che dice e il modo in cui lo dice è tuttora stupendo, sebbene altre cose sembrino datate, ad esempio la sua caratterizzazione univoca delle donne. Questo non significa però che dovremmo cancellarlo. Ora lo leggiamo in modo diverso e tutto si fa più complesso.

Alcuni dei suoi libri presentano brani o capitoli narrati da una prospettiva post-mortem. Penso all’incipit di «Ultime storie e altre storie», dove comincia dicendo che questo è il suo ultimo libro e ogni libro successivo sarà opera di un fantasma. Peraltro, all’inizio di «Carbon Ideologies» il narratore assume la prospettiva delle generazioni future. È un tema che lei sente come ricorrente?

Con l’avanzare dell’età di sicuro. È interessante il fatto che Carbon Ideology è dedicato a Lisa, mia figlia, che – come ho scritto – non può vivere da nessuna parte se non nel nostro futuro. Ma quest’anno è morta, dunque non devo preoccuparmi di lei in quel futuro. Una volta, quando era piccola, mi disse: «Papà, davvero c’erano le macchine da scrivere quando eri vivo?». E io ho pensato: «È vero. Quando ero vivo, non crederesti mai a tutte le cose che sono successe. Quando ero vivo, ad esempio, trivellavamo il petrolio, lo trasformavamo in plastica e lo buttavamo via. Eravamo così particolari quando ero vivo». Penso che tra vent’anni ci saranno genocidi e carestie. Sarà orribile, non credo che lo possiamo nemmeno immaginare.

Due suoi libri sono in corso di pubblicazione negli Stati Uniti, «Shadows of Love», «Shadows of Loneliness». Ce ne parla?
Sono molto contento che diverse delle foto e dei disegni che ho realizzato appaiano finalmente in riproduzioni decenti. A Sacramento, dove vivo, siamo al secondo posto per rischio di inondazioni dopo New Orleans. E con il cambiamento climatico, la stagione degli incendi è così terribile che negli ultimi tre o quattro anni, molto spesso già a luglio e fino a ottobre ti svegli nel cuore della notte, la stanza è piena di fumo e mentre stai già tossendo e cerchi di respirare attraverso un fazzoletto, ti chiedi: «Cosa faccio? Va tutto a fuoco e non c’è un posto dove andare». In quei momenti penso che non so per quanto tempo le mie opere potranno sopravvivere fisicamente. L’editore è in ritardo di due anni, sono rimasto un po’ deluso perché i libri contenevano molte immagini di Lisa e pensavo che sarebbero stati una bella sorpresa per farla felice. Naturalmente non li ha mai visti, ma questa è la vita. O meglio: questa è la morte.

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