William Kentridge, verso Martinica
Intervista L'artista sudafricano parla dei suoi ultimi lavori, a partire da quello presentato da poco a Palermo
Intervista L'artista sudafricano parla dei suoi ultimi lavori, a partire da quello presentato da poco a Palermo
Nel cuore storico di Palermo sorge il cinquecentesco Palazzo Branciforte, nell’Ottocento convertito a banco dei pegni, dedicato a Santa Rosalia. Modellati per questa funzione i suoi interni appaiono impressionanti: un intrico di ripiani, scale, ceste di legno che si sviluppa in spazi altissimi. Una visione piranesiana o escheriana per un luogo di pena. Non destinato a ricevere preziosi, bensì i miseri averi, indumenti, biancheria, della povera gente che sperava di racimolare il denaro sufficiente per emigrare in America. Palazzo Branciforte è ora uno spazio per la città, della Fondazione Sicilia, riaperto nel 2012 dopo la ristrutturazione affidata a Gae Aulenti.
Nei suoi spazi, si è tenuta fino al 12 gennaio 2024, l’installazione sonora You Whom I Could Not Save di William Kentridge, curata da Giulia Ingarao, Antonio Leone e Alessandra Buccheri. Kentridge, artista sudafricano eclettico che spazia tra disegni, collage, animazioni e teatro d’opera, ha riempito gli spazi dell’antico banco dei pegni di varie opere che culminano in un video sui surrealisti in fuga dalla guerra che, nel 1941, salgono sulla nave Capitaine Paul-Lemerle a Marsiglia con destinazione Martinica. Opera pervasa dal profondo senso umanista dell’autore, che ha vissuto da bianco il regime dell’apartheid, figlio di avvocati attivisti che hanno combattuto contro quell’odioso sistema di segregazione. Abbiamo conversato a distanza con William Kentridge, che si trovava nel suo studio di Johannesburg in una bella serata estiva.
L’installazione «You Whom I Could Not Save» è pervasa dal tema dell’attraversamento, della disperazione, della ricerca della salvezza o di un mondo migliore in cui vivere. I surrealisti in fuga dalla guerra messi in risonanza con l’evocazione della povera gente siciliana al banco dei pegni. Potremmo aggiungere anche i migranti di oggi, che approdano nelle isole siciliane?
Il video, proiettato in una sala del palazzo, è stato creato per questo lavoro e per la prossima produzione teatrale da opera The Great Yes, the Great No che debutterà ad Arles a metà 2024. Questo racconta del viaggio da Marsiglia alla Martinica del 1941. Certo è anche un riferimento ad altri attraversamenti dell’Atlantico: quello della tratta di schiavi tra Cinquecento e Settecento, e ovviamente alle migrazioni contemporanee. La sensazione è quella di stare dentro una nave, per la struttura in legno, per questa incredibile architettura creata dagli infiniti ripiani per raccogliere vestiti e beni lasciati in pegno. Sembra di essere ancora in viaggio.
L’opera è site specific, c’è un dialogo con quelle architetture di Palazzo Branciforte?
Il video Sibyl viene dalla mia precedente opera da camera Waiting for the Sibyl, e non è stato concepito per quello spazio, ma l’opera nel suo complesso è site specific. Prendere un frammento di un’altra produzione e metterlo qui dà un senso a queste voci tra gli scaffali vuoti, nelle stanze vuote, come voci di chi ha fatto quel viaggio.
Abbiamo aggiunto una serie di megafoni, ognuno con una voce differente. Così quando cammini tra le stanze senti brani cantati in vari linguaggi sudafricani: zulu, swazi, xhosa, le madrelingue dei vari cantanti del coro. I loro testi si possono leggere in italiano e in inglese.
C’è un dialogo con le architetture piranesiane delle scalinate e degli scaffali. Da quando sono stato invitato a lavorare in questo straordinario edificio, ho subito pensato che l’installazione dovesse essere principalmente sonora.
Gli spazi sono potenti di per sé. Non possono semplicemente essere usati come sfondo su cui appendere una serie di disegni o dipinti. Il cuore è davvero nel suono proveniente dai megafoni nelle sale e nella visione della proiezione.
Una sua istallazione al Louvre, «Carnets D’Egypte», era in due sale tra loro lontane del museo, il che obbligava i visitatori a percorrerlo per passare da una all’altra. Era un tragitto voluto come un viaggio nella storia dell’arte?
Passeggiare per gli spazi è una parte importante della fruizione delle mie opere. Ti invitano a passeggiare attraverso una serie di stanze diverse. Il percorso è intenzionale.
Alcune opere dell’installazione, i «Cash Book Drawing», sono disegni o collage che usano come supporto, al posto di fogli bianchi, pagine di libri contabili dell’800. In altre sue opere utilizzava analogamente pagine di giornali o dizionari. Si tratta di un dialogo con il passato nell’ambito della riflessione sul tempo che è centrale nel suo lavoro?
L’utilizzo delle pagine dei libri di cassa ha a che fare anzitutto con la qualità della carta. Questa è una carta molto bella degli anni 1820-30. Alcuni fogli sono stati ritrovati dai musei, altri al mercatino delle pulci. Meravigliosa: ha una grana che trattiene il carboncino in abbondanza. Poi si ha il senso della storia in quei fogli, nella calligrafia, nella scrittura a mano, non solo nelle colonne stampate del registro contabile, ma anche la sensazione delle vecchie mani, ormai di persone morte da tempo, che hanno fatto quelle bellissime scritture in corsivo dei resoconti contabili.
In merito alle sue animazioni con le tavole disegnate a carboncino, la critica dell’arte Rosalind Krauss parla di un ritorno a una fase precinematografica, di abbandonare il flusso dell’animazione in favore di una sorta di palinsesto. Cosa ne pensa di questa interpretazione?
Si tratta di chiarire il processo che attraversiamo quando diamo un senso al mondo. Se guardi una striscia di pellicola di celluloide, una cosa sempre più difficile nell’epoca dei media digitali, puoi vedere che ogni fotogramma è una fotografia. Ognuna leggermente diversa dalla precedente. E quando si proietta uno dopo l’altro, c’è questo fenomeno straordinario per cui vediamo l’oggetto in movimento o il movimento delle immagini. Un lavoro dei nostri cervelli: trasformiamo una serie di immagini fisse, nella nostra convinzione, in movimento.
In una proiezione credi di vedere il movimento e dimentichi il processo che ci sta dietro. Se vedi un film d’animazione molto più grezzo, con meno inquadrature e più salti, ti rendi invece conto del lavoro che stiamo facendo per dare questa illusione di movimento.
È una comprensione vitale, riconoscere qualcosa piuttosto che sapere qualcosa in anticipo. Questi sistemi precinematografici, zoetrope, phénakisticope, rendono molto chiaro tutto ciò. La comprensione di questa tecnologia pre-cinematografica non è solo un fatto di nostalgia, ma è la dimostrazione meccanica del lavoro che facciamo nel vedere, di come il nostro cervello sia un muscolo e non semplicemente un ricevitore radio o un’antenna parabolica.
Una tua opera, autoriflessiva, è il trittico del 1988 «Art in a State of Grace»,« Art in a State of Hope» e «Art in a State of Siege», conservata all’University of the Witwatersrand Gallery, laddove il «siege» (assedio) era un riferimento al regime dell’apartheid ancora vigente. Ora quelle tre componenti sono ancora parte della tua arte nella stessa misura?
All’epoca non me ne rendevo conto, ma era una sorta di manifesto per il lavoro che ho fatto negli ultimi 35 anni. Certi pensieri utopici, così forti nello stato di speranza, che rappresentava l’essenza per esempio del teatro Agit-Prop, ora non sono possibili.
Fare arte come se il mondo non esistesse al di fuori dello studio, lavorare solo in uno stato di grazia con il solo pensiero del colore, l’immagine del linguaggio in sé piuttosto che il linguaggio dell’immagine connesso al mondo esterno. anche questo sembra impossibile.
Lavorare in questo spazio indeterminato che ho chiamato arte in uno stato d’assedio, in cui il mondo esterno entra nello studio e pone domande, e incontra le tecniche e il linguaggio dello studio: ecco, questo mi sembra ancora vitale. Sono un po’ stupito che da trentenne io sia stato in grado di articolare queste partizioni, con le quali ho ancora a che fare oggi, a 68 anni.
(William Kentridge ci saluta e si accinge a cucinare la cena per sé e per la moglie…)
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