William Gaddis, trionfo di voci in libertà, il cui senso può sfuggire
Grandi dialoghi/4 Stando al solo piano narrativo, «Jr» racconta la parabola di un undicenne, arricchito grazie a speculazioni finanziarie fittizie; ma la rivoluzione, era il 1975, è nella forma
Grandi dialoghi/4 Stando al solo piano narrativo, «Jr» racconta la parabola di un undicenne, arricchito grazie a speculazioni finanziarie fittizie; ma la rivoluzione, era il 1975, è nella forma
Non a caso un’aura speciale avvolge William Gaddis, quella che gli è valsa il soprannome fin troppo indicativo di Mr Difficult. Oggi, a venticinque anni della sua scomparsa, nessuno si sogna più di contestare che egli sia un protagonista assoluto della letteratura americana di ogni tempo, oltre che il precursore del postmodernismo. La sua fama di autore ostico e oscuro induce tuttavia molti lettori a tenersi alla larga dalle sue opere perché di inespugnabile decifrazione, a cominciare proprio da JR, considerato il suo capolavoro indiscusso.
Che Gaddis sia difficoltoso all’inverosimile se non addirittura illeggibile è vero solo in parte. Venire a capo di JR non è certo una passeggiata, ma gli ostacoli maggiori possono essere agevolmente superati se ci si dispone a leggerlo alla maniera in cui un investigatore ascolta un’intercettazione ambientale, ovvero pescando in un mare di parole, all’apparenza futili e confuse, le informazioni necessarie per farsi un quadro mentale del contesto. Si dirà che a questo modo ci viene sottratto il piacere distensivo della lettura. Può anche essere. In compenso ci vediamo offerto il gusto di origliare un fiume di conversazioni, dialoghi, battibecchi. Non è forse vero che dietro alla voglia di storie si nasconde il desiderio strisciante di intrufolarsi nei segreti altrui? Il punto è se il gioco vale la candela ovvero se c’è qualcosa che valga la pena di origliare.
Nei romanzi tradizionali, la voce cui prestiamo davvero ascolto è in sostanza una: quella narrante. E più questa voce ci avvolge e ci avvince, più vi ci abbandoniamo fiduciosi, perché, un po’ alla maniera di Virgilio con Dante, ci fa da guida. Essendo un trionfo di voci, quando non una vera e propria cacofonica, JR non offre aiuto alcuno al lettore. Del resto è un’opera degli anni Settanta, un periodo in cui sperimentazione e sovvertimento delle più consolidate convenzioni erano all’ordine del giorno.
Prendete il dialogo riportato qui accanto: Ann Bast ha ragione nel dire che il signor Coen non è un estraneo. Ne storpia un po’ il nome, infilandoci un’acca che in effetti non c’è, nondimeno ha ragione. Quello che lei chiama il signor Cohen è l’avvocato della famiglia Bast, che sta tentando con molta fatica di mettere ordine in una grossa eredità la cui spartizione rischia seriamente di complicarsi. L’avvocato vorrebbe tanto riportare la conversazione con Anne e Julia Bast sui giusti binari, discutere di cose concrete, ma le due sorelle persistono nel rivangare in maniera erratica e sconclusionata vecchie storie di famiglia. Parlano delle bizzarre ultime volontà del loro padre e di busti presi a colpi di remo affinché affondino nelle acque del porto di Vancouver, busti che peraltro forse non sono mai esistiti. A fare ordine è chiamato il lettore che si avventura in JR, di cui questo delirante dialogo costituisce l’inizio. Salvo occasionali quanto sparute intromissioni, somiglianti più alle indicazioni di una sceneggiatura che alle descrizioni di un romanzo, l’autore lascia infatti che i personaggi si perdano nelle loro chiacchiere, ne riporta pedissequamente le parole senza preoccuparsi di specificare dove, quando e da chi vengano pronunciate. Non lima in alcun modo gli errori di sintassi, le ripetizioni, le frasi lasciate a metà, le tante incongruenze tipiche del parlato. E si comporta a questo modo non per poche pagine ma per l’intero romanzo, che essendo di mole più che ragguardevole si presenta dunque come una gigantesca trascrizione di cose dette il cui senso rischia costantemente di sfuggire.
William Gaddis ha tuttavia dichiarato che JR è «per molti versi un romanzo tradizionale» e visto non era certamente il tipo del rivoluzionario, né un uomo incline alle sparate gratuite, c’è da credergli. Non resta quindi che domandarci cos’è un romanzo e come agisce sulla nostra sensibilità. Pensiamo allora al mondo in cui romanzi cosiddetti tradizionali sollecitano costantemente la nostra capacità di immaginare luoghi e persone, colori e sapori, profumi e sensazioni. Di fatto, quando leggiamo un romanzo noi vediamo. Con i soli occhi della mente, ma vediamo. Origliare una conversazione o ascoltare una voce al telefono, come capita in JR, ci lascia invece al buio. Sentiamo un suono che proviene da un altrove, ma i nostri occhi vedono soltanto il luogo in cui ci già troviamo. In teoria, nulla ci vieterebbe di immaginare chi c’è all’altro capo della linea e da dove ci parla, ma immaginare nelle condizioni di JR — senza una guida, senza qualcuno che ci dica cosa vedere — è assai più difficile. Le immagini si fanno più astratte perché tutto ciò che abbiamo è una voce senza un corpo. Abbiamo parole che restano chiacchiere ovvero parole e, si sa, verba volant. Anche il denaro è volatile. Volatile alla maniera delle parole, tant’è che si dice anche money talks. E c’è ancora un altro elemento che accomuna il denaro alle parole. Come la voce, il denaro emana da un corpo. Non un corpo in carne e ossa, ovvio, bensì un qualcosa al contempo impalpabile e concreto. Il corpo del denaro è il suo valore. All’inizio di JR le sorelle Bast rievocano il momento in cui, bambine, videro una banconota per la prima volta. Erano abituate a pensare al valore del denaro come a un oggetto tangibile — moneta sonante, dollari d’argento. Faticavano a capacitarsi che un pezzo di carta potesse essere altrettanto prezioso se non di più. Possiamo forse biasimarle? Stringi stringi, una banconota è priva di valore intrinseco; attesta soltanto una promessa, l’impegno di rimettere al portatore la somma indicata, tant’è vero che in origine la carta moneta era chiamata promissory note. Accettare denaro in cambio di merce significa credere sulla parola che un giorno ci verrà dato quanto ci spetta. In altri termini, è pura parola, linguaggio al netto della sua polpa, il significato. Allo stesso modo, i personaggi di JR sono pura voce, possiamo ascoltarli parlare ma non vedere i loro corpi. Su un piano strettamente narrativo, le loro parole servono a ricostruire l’incredibile parabola di un undicenne – il JR del titolo – che malgrado la sua giovanissima età riesce a creare un gigantesco impero economico grazie a una serie di speculazioni finanziarie fittizie. Il primo affare JR lo realizza rivendendo all’esercito novemila forchette da picnic, originariamente appartenenti alla marina, e quando un suo compagno di scuola gli chiede perché l’esercito le abbia comprate direttamente dalla marina, il bambino affarista fornisce una risposta in cui è condensato il mistero del denaro ma soprattutto dell’America: “Come faccio a saperlo, si fa così e basta”. Uscito nel 1975, JR avrebbe dovuto essere accompagnato dal sottotitolo a novel about futures, ovvia e ironica allusione agli strumenti derivati della finanza in cui si percepisce una altrettanto ovvia ambizione di preconizzare i tempi a venire. E va dato atto che Gaddis ha in effetti anticipato l’economia sempre più inafferrabile, eterea e fluttuante del mondo globalizzato. JR è in fin dei conti il romanzo del confine tra il primo e il dopo. Al di qua della linea si trova il tempo di Gaddis, un tempo in cui le persone credevano ancora di contare in quanto individui e di poter dire la loro, al di là ci siamo noi con tutto quel che ciò comporta.
Il dialogo
Da William Gaddis, JR, traduzione di Vincenzo Mantovani, Alet Edizioni, 2009
“Moneta . . .?” con una voce che era un fruscio.
“Carta, sì.”
“E non l’avevamo mai vista. Cartamoneta.”
“Non avevamo mai visto cartamoneta prima di venire qui sulla costa orientale.”
“Aveva un aspetto così strano la prima volta che l’abbiamo vista. Senza vita.”
“Nessuno avrebbe detto che valeva qualcosa.”
“No, non dopo aver sentito il tintinnio degli spiccioli di nostro padre.”
“Quelli erano dollari d’argento.”
“E mezzi dollari d’argento, sì, e quarti di dollaro, Julia. Quelli dei suoi allievi. Lo sento ancora…”
Il sole, incassato in una nuvola, dilagò improvvisamente sul piancino, rompendosi tra le foglie degli alberi là fuori.
“Quando veniva sulla veranda, come tintinnava mentre camminava!”
“Costringeva gli allievi, quando facevano le scale, a tenere sul dorso delle mani i quarti di dollaro che gli portavano. Faceva pagare la lezione cinquanta cent, vede signor…”
“Coen, senza l’acca. Ora, se le signore…”
“Ma sì, è proprio come quella storia delle ultime volontà di nostro padre, che il suo busto venisse affondato nel porto di Vancouver e le sue ceneri fossero sparse sull’acqua, di James e Thomas che uscirono con la barca e tutt’e due menavano grandi colpi sul busto con i remi perché era cavo e non voleva andare a fondo, e intanto che erano là fuori cominciò a venire una burrasca, e il vento gli soffiava la cenere nella barba.”
“Non è mai esistito un busto di nostro padre, Anne. E non ricordo che lui sia mai stato in Australia.”
“Era quello che volevo dire, come nascono tutte queste storie.”
“Sì, ma non mi sembra il caso di rivangarle davanti a un perfetto estraneo.”
“Non direi che il signor Cohen sia un estraneo. Conosce i nostri affari meglio di noi.”
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