Werner Herzog, la vita, e l’opera d’arte, come performance fisica
Werner Herzog in Perù sul set del film «Fitzcarraldo», fotografia di Jean-Louis Atlan / Sygma via Getty Image
Alias Domenica

Werner Herzog, la vita, e l’opera d’arte, come performance fisica

Autobiografia da Feltrinelli Predilezione per il documentario, centralità delle riprese, dilemmi etici sull’autenticità a rischio voyeurismo... Il versante letterario del regista tedesco si arricchisce di un libro di «ricordi»: «Ognuno per sé e Dio contro tutti»
Pubblicato 10 mesi faEdizione del 3 dicembre 2023

Nel libro di conversazioni con Paul Cronin Incontri alla fine del mondo (minimum fax 2014), Werner Herzog diceva al suo interlocutore: «A volte sento che avrei dovuto scrivere di più e che potrei essere migliore come scrittore che come regista. La scrittura è una parte di me che deve essere ancora scoperta appieno». Le interviste di Cronin si erano svolte tra il 2001 e il 2002 (anno di uscita dell’edizione originale del libro), e allora la bibliografia di Herzog era piuttosto striminzita, e composta quasi del tutto dalle versioni in volume delle sceneggiature dei suoi film. Si sarebbe arricchita poco dopo con la pubblicazione dei diari di lavorazione di Fitzcarraldo (1982), con il titolo La conquista dell’inutile (apparsi in Italia da Mondadori), ma erano ancora lontani gli sforzi degli ultimi anni, in cui Herzog sembra aver preso sul serio quella sua lontana affermazione.

Nel 2021, infatti, ha fatto uscire Il crepuscolo del mondo, storia di Hiroo Onoda, il soldato giapponese che difese un’isola sperduta al largo delle Filippine per ventinove anni dopo la fine della guerra, rifiutando di accettare la sconfitta della sua patria. E un anno dopo ha mandato in libreria Ognuno per sé e Dio contro tutti, pubblicato ora da Feltrinelli così come il volume precedente («Narratori», traduzione di Nicoletta Giacon, pp. 364, € 22,00). Se Il crepuscolo del mondo era, per così dire, una versione letteraria dei documentari che hanno reso celebre Herzog quasi più dei suoi film di fiction, con questo ultimo lavoro il regista si ricolloca in un territorio che era già quello de La conquista dell’inutile (Mondadori 2007) e dell’unico suo libro, tra quelli pubblicati prima del 2002, che esulava dal rapporto diretto con lo schermo: Sentieri nel ghiaccio (Guanda ’78), diario di un’altra impresa, il pellegrinaggio compiuto a piedi da Monaco a Parigi per propiziare la guarigione da una grave malattia di Lotte Eisner, storica del cinema e mentore dei giovani cineasti tedeschi degli anni settanta.

Se La conquista dell’inutile e Sentieri nel ghiaccio condividono la forma diaristica, cosa li imparenta con Ognuno per sé, che appare a prima vista come una autobiografia piuttosto classica? Forse un’idea dell’arte come performance e, ampliando il punto di vista, della vita come performance suprema e quindi come opera d’arte nel suo complesso.

Nel 1982, un giovane scrittore francese che sarebbe diventato nel giro di pochi decenni uno degli autori mondiali più amati (e odiati), esordiva con uno snello saggio cinematografico dedicato proprio a Herzog. Quello scrittore era Emmanuel Carrère, e chiunque abbia letto Limonov si ricorda dello sprezzo con cui Herzog aveva liquidato lo sforzo del suo giovane ammiratore durante un incontro al festival di Cannes: «I know it’s bullshit». Eppure, se si fosse degnato di aprire il libro, forse si sarebbe accorto (ma non lo avrebbe certo mai ammesso) che lo scrittore in erba aveva còlto, in una fase ancora tutto sommato iniziale e partendo proprio da Sentieri nel ghiaccio, il nucleo del suo lavoro: «l’identificazione della ricerca poetica con la performance fisica». Un teorema semplice, ma da cui seguono con altrettanta semplicità i corollari che delimitano i confini del lavoro di Herzog: la predilezione della forma documentaristica, la centralità delle riprese (rispetto al montaggio o alla sceneggiatura), i dilemmi etici che sorgono quando l’esigenza di autenticità si trasforma in voyeurismo se non, addirittura, in produzione della sofferenza.

Dal lato della scrittura letteraria, e in una prospettiva formale, assume dunque un senso più profondo il ricorso alle forme del diario e dell’autobiografia, perché lo sforzo artistico è testimonianza, non però di qualcosa che è proiettato nella realtà come su uno schermo, quanto di un’impresa in cui l’individuo è coinvolto con il corpo e con la mente in maniera inscindibile, totalizzante. Si legge Ognuno per sé come si leggerebbe l’Anabasi, o le memorie di un Livingstone, o di un Humboldt – personaggio che per altro, grazie all’intuizione del collega Edgar Reitz, Herzog ha interpretato in L’altra Heimat – Cronaca di un sogno (2013): con un senso di estenuazione, di minaccia costante, di pericolo…

Alla curatrice di un museo che vuole affibbiargli l’etichetta di artista, Herzog risponde piccato – così racconta nel libro – di sentirsi «un soldato»: un reduce, un sopravvissuto, verrebbe da aggiungere. Ma insieme alla lotta (che è lotta per la vita già nell’infanzia umilissima e tormentata dalle conseguenze della guerra, così come poi nelle imprese cinematografiche) c’è anche, inseparabile, l’estasi, la rivelazione, il fugace schiudimento delle «cose nascoste sin dalla fondazione del mondo». Il libro si apre con il racconto di una notte di pesca ai calamari al largo di Creta, in cui un Herzog sedicenne ha per la prima volta la rivelazione che «per me, il tempo comunemente inteso non sarebbe mai più esistito»; comprende poi l’apparizione mozzafiato della valle di mulini a vento, sempre a Creta, che avrebbe generato la scintilla del primo lungometraggio Segni di vita (1968); e ingloba via via visioni che vanno da camminamenti tra le Alpi immutati dall’epoca dei viandanti medievali a distese di pozzi petroliferi in fiamme, nella Guerra del Golfo, che trasformano l’immagine della Terra in un pianeta ostile e sconosciuto.

Ne Il diamante bianco, documentario del 2004 dedicato alla costruzione di un dirigibile che avrebbe dovuto sorvolare la foresta amazzonica, c’è un’ansa del racconto principale in cui un membro dell’entourage di Herzog, il medico e scalatore Michael Wilk, viene calato da un dirupo che sovrasta le imponenti cascate di Kaieteur, in Guyana, per esplorare le grotte che si trovano dietro la cortina d’acqua, dove hanno il nido migliaia di rondini. Herzog decide di non montare nel film le immagini raccolte da Wilk, per preservare quei luoghi in cui lo sguardo dell’uomo non era fino ad allora mai entrato. Eppure, le sue imprese sembrano muoversi in contrasto con questo pudore: Herzog torna dal pubblico, nei film come nel suo libro, per testimoniare, e spesso il suo resoconto mostra che il segreto del mondo è un grembo osceno, crudele, incurante dell’uomo. Che si tratti degli orsi di Grizzly Man (2005) o dei vulcani di Into the Inferno (’16), lo sguardo di Herzog (e la sua voce, che sigla in maniera altrettanto inconfondibile i suoi documentari) vi coglie puntualmente le maschere di un processo che si muove come un serpente cosmico «nella profonda indifferenza per il destino di scarafaggi striscianti, coccodrilli idioti o esseri umani vuoti, privi di senso».

È un esito di una radicalità che ha eguali forse solo in certi romanzi di Cormac McCarthy come Meridiano di sangue – e se mai una versione cinematografica di questo libro, più volte annunciata, sarà realizzata, sarebbe bello vedere proprio Herzog (che ha già interpretato con successo tanti villain, come non esita a ricordare con una certa soddisfazione in un capitolo di Ognuno per sé) nei panni del demoniaco giudice Holden. Ma se il pessimismo è sbandierato nel titolo dell’autobiografia (che era già il titolo originale del film conosciuto in Italia come L’enigma di Kaspar Hauser, del ’78), più nascosto è invece il motivo gnostico sotterraneo, che crea un’altra parentela con lo scrittore americano: là dove McCarthy insegue i gesti sacramentali che sopravvivono al «maelstrom di autodisfacimento» del mondo, Herzog si mette sulle tracce di «immagini dormienti»: la donna nuda abbracciata dal bisonte nelle pitture rupestri a Chauvet di Cave of Forgotten Dreams (2010), la nave sulla montagna di Fitzcarraldo, o i già citati mulini a vento di Segni di vita. Impronte nella memoria collettiva, metafore vuote, significanti che non significano nulla – se non la scintilla di una conquista umana contro l’opacità del mondo, prima di essere inghiottita dal serpente.

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