Lo scorso 2022 è stato l’anno dei compleanni «tondi» di due grandi registi tedeschi, entrambi antesignani e iniziatori del «Nuovo Cinema Tedesco»: Edgar Reitz (90 anni) e Werner Herzog (80 anni) che però ama volentieri tirarsi fuori da quel movimento. Ed entrambi, complice il periodo della precedente pandemia, hanno steso sulla carta le loro autobiografie. La prima di esse, quella del più giovane trai due, è già pubblicata in italiano presso Feltrinelli, ben tradotta da Nicoletta Giacon, per l’altra bisognerà aspettare il 2024 e verrà editata da La nave di Teseo. Com’è facile immaginare, al pari del loro film, – quelli di un cineasta viaggiatore-nomade da una parte, dall’altra quelli di un analista delle radici e dell’Heimat -, anche questi due libri sono incomparabilmente, incredibilmente differenti, magari anche quando parlano di qualche (breve) esperienza avuta in comune.

Ma veniamo al dunque, al volume già uscito in Italia intitolato Ognuno per sé e Dio contro tutti (traduzione di Nicoletta Giacon, Feltrinelli) – così come si chiamava in originale uno dei film più belli e suggestivi di Werner Herzog, uscito nel nostro paese come L’enigma di Kaspar Hauser (1974). Un titolo, dunque, guarda caso, che esplicita immediatamente il tipo di atteggiamento nei confronti del mondo e al tempo stesso lancia un chiaro monito al lettore di non aspettarsi da questi «Ricordi» (così il sottotitolo) qualcosa che possa assomigliare a quanto comunemente si intende con la dizione «autobiografia». Intanto perché l’autore monacense non racconta la sua vita e la sua carriera in modo cronologico bensì «associativo» tramite dei capitoli diciamo pure tematici, anche se la parte iniziale del libro descrive, in prevalenza, l’ «infanzia arcaica» e la giovinezza con le sue durezze nel villaggio di Sachrang in Alta Baviera, tra fame e rapporti domestici molto difficili.

E così – in questa parte più inedita della biografia herzoghiana rispetto al notissimo rapporto di amore-odio con l’attore feticcio del suo cinema Klaus Kinski – emergono aspetti ancora poco noti. Ad esempio, la grande, centrale, inesauribile forza della madre a mandare avanti la famiglia subito dopo la guerra, un certo odio e/o disprezzo esplicito per il padre divorziato, i rapporti con gli altri fratelli, sorelle e fratellastri come Lucki che poi diventerà l’inesausto produttore e il principale collaboratore di Werner. Inoltre, lo sport (scii e calcio) e marachelle varie; un primo viaggio in Grecia adolescente sulle orme del nonno paterno archeologo; le avventure americane a seguito di una borsa di studio; la scoperta del cattolicesimo e del misticismo; il furto di una cinepresa e l’aver realizzato da assoluto autodidatta già un cortometraggio a poco più di vent’anni. E ancora di più.

Chi non ha letto le prove narrative precedenti di Herzog, per esempio Sentieri nel ghiaccio (Guanda, 1980) – diario del suo viaggio a piedi nell’inverno 1974 da Monaco a Parigi per andare a trovare l’amica malata, la grande storica del cinema Lotte Eisner – oppure La conquista dell’inutile (2007 Mondadori) – diario di lavorazione di Fitzcarraldo, tra giugno 1979 e novembre 1981, pubblicato più di vent’anni dopo l’uscita di quel celebre e movimentatissimo film – non conosce neanche la forza affabulatoria e fantasmatica della sua scrittura. E poi, in ogni caso, non si capisce quante vite abbia vissuto il nostro autore: se una come noi tutti comuni mortali oppure sette come i gatti, dato che a leggere questo suo ultimo libro la messe degli incidenti e delle avventure accadute, oppure la quantità del lavoro svolto – al pari di quello del suo grande collega Rainer Werner Fassbinder – ci snocciolano fatti e numeri che hanno dell’incredibile. A tale proposito possiamo ricordare che la filmografia prodotta (sinora) da Herzog conta più di sessantacinque opere, se abbiamo contato bene, tra lungometraggi, corti, documentari, ecc. – ed escludiamo oltre una quindicina di regie operistiche. Insomma, in due parole, un portento della natura e in più un narratore tanto efficace quanto di straordinaria qualità. Come il suo lavoro cinematografico.

Bisogna, però, avvertire cosa non si troverà in questa, a tratti strabordante, Autobiografia sui generis. Innanzitutto, come si accennava, manca una cronaca descrittiva, sistematica e/o abbozzata, dell’evolversi e svilupparsi del suo cinema; viceversa, Herzog ci parla delle sue varie ossessioni e curiosità che – dalla ipnosi alla lettura dei segni – hanno variamente ispirato i film fatti. Niente di niente pettegolezzi o aneddoti troppo personali, mentre, in un capitolo, dettato da un affetto estremo, ricorda le quattro donne della sua vita (a parte la madre), così come in precedenza aveva descritto le sue esperienze di gioventù e di famiglia.

Il rapporto con il lavoro cinematografico scaturisce, dunque, senza nessuna teorizzazione da cui è profondamente lontano e che odia, quasi naturalmente, seguendo più o meno una massima di vita che corrisponde ad una frase che ha spesso ripetuto come un mantra: «Ero consapevole che – partendo da una quasi totale ignoranza di cinema – dovevo inventare io stesso il cinema a modo mio». Soltanto al capitolo 28, intitolato «La verità dell’Oceano» si lancia in polemica contro i fautori del «Cinéma Vérité», oggi diventati dei «contabili della verità»: «la verità», afferma, «non deve necessariamente coincidere con i fatti, altrimenti l’elenco telefonico di Manhattan sarebbe il libro dei libri. […] Solo la poesia, solo l’invenzione creativa può rendere visibile uno strato più profondo, una sorta di verità che io chiamo “estatica” […] Lo scrittore francese André Gide scrisse una volta: modifico i fatti in modo che assomiglino più alla verità che alla realtà».

E questo principio credo guidi anche il modo con cui Herzog ci ha raccontato, molto piacevolmente, la sua vita, il suo grandissimo operare artistico in un flusso di eventi, di ossessioni, di amicizie (ad esempio quella fondamentale con un altro grande camminatore come Bruce Chatwin) o di inimicizie creative (come con il «folle» Klaus Kinski). Un libro in definitiva di scorrevole, divertente lettura, in cui la profondità di pensiero emerge da una leggerezza con cui si raccontano e magari si alterano i fatti. Provare per giudicare.