Cultura

Watts Towers, totem della memoria urbana

Watts Towers, totem della memoria urbanaUn’immagine delle Watts Towers

GEOGRAFIE Il restauro dell’opera nel quartiere di Los Angeles sinonimo delle rivolte. Furono realizzate da Sabato Rodia, un immigrato italiano, con i materiali di scarto trovati per strada. Elisabetta Covizzi guida l’equipe italiana che lavora al primo recupero di quella che definisce «la più grande opera di folk art o arte povera al mondo, costruita da una sola persona»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 settembre 2023

Nella geografia emozionale di Los Angeles, Watts occupa un posto pesante. Il quartiere, nel cuore della distesa nota come South Central, è sinonimo di rivolte: quella del 1965, la sollevazione della popolazione afroamericana per l’ennesimo sopruso di polizia poi soppressa nel sangue.

LE «WATTS RIOTS» avrebbero anticipato altre estati roventi nelle città insorte dopo le morti di Malcolm e di Martin, e anticipato pure le sommosse del 1992, sempre a Los Angeles seguite al pestaggio di Rodney King – massacrato a manganellate sul ciglio di una strada da agenti del Lapd poi prosciolti.
Watts è stata a lungo il cuore negletto della comunità martoriata, nota al massimo per i blocchi di cemento delle case popolari (prima che anche questa minima funzione civica venisse abbandonata al degrado da una città votata alla speculazione edilizia). Si chiamano Nickerson Gardens e Jordan Downs, ci sono cresciuti Tyrese Gibson e Florence Griffith Joyner. Ma il quartiere ha dato i natali anche a Barry White e ai Watts Prophets, Buddy Collette e Charles Mingus. Molti di loro sono ritratti in grandi murales, come quelli su Graham Avenue, al lato della ferrovia. Ma, a guardare meglio, fra i volti ritratti qui, fra Angela Davis e Malcolm X per la precisione, ce n’è uno che non ti aspetteresti, la faccia abbrustolita dal sole da contadino irpino di Sabato Rodia. In questo pantheon il posto per lui è dovuto perché si tratta del creatore dell’opera che forse più di ogni altra ha reso celebre questo luogo nel mondo, le Watts Towers.

SABATO RODIA, detto Simone, arriva quando qui c’era poco più che una brulla campagna, fra Los Angeles ed il porto di Long Beach, costellata di catapecchie di manovali. È il 1921, e lui proviene da Rivottoli, frazione di Serino, in provincia di Avellino. La famiglia emigrante lo porta bambino fra i minatori della Pennsylvania, poi a Seattle e infine in California. A Watts trova impiego come piastrellista e acquista un fazzoletto di terra su cui, accanto alla modesta casa, inizierà da subito a costruire. Per trent’anni nei ritagli di tempo e dopo il lavoro, sarà lui a costruire le torri. Rigorosamente da solo e a mano, crea le intelaiature di ferro, le ricopre di malta in cui incastonerà i mosaici di materiali che trova buttati per strada e raccoglie nei giardini e nelle discariche e, nel caso delle conchiglie, sulle spiagge della costa (mentre tutt’attorno il quartiere si trasforma via via da demanio rurale in una specie di Scampia californiana).

IL LAVORO CERTOSINO di una vita che produce, spiega Elisabetta Covizzi, oggi incaricata del restauro dell’opera, «una specie di Sagrada Familia dei poveri» – riferimento alla cattedrale di Barcellona dell’architetto catalano Antoni Gaudí. Settant’anni dopo che, nel 1954, Rodia ritiene completata l’opera e consegna le chiavi ad un vicino per non tornare mai più, Covizzi guida un’equipe italiana che lavora al primo vero recupero di quella che definisce «la più grande opera di folk art o arte povera al mondo costruita da una sola persona». «Per pura coincidenza ci siamo ritrovati un piccolo gruppo di italiani, io, il mio collega Ermanno Carbonara anche lui un restauratore italiano specializzato in mosaico. E poi due tecniche che ci aiutano, delle quali una è italiana da parte di padre».

Coincidenza o ironia della migrazione, ciclica e stratificata, fatto sta che è una squadra di «connazionali» quella che da cinque anni lavora sotto gli auspici del Lacma, il museo d’arte moderna della città, per conservare questo monumento prima abbandonato poi recuperato ma mai curato come avrebbe meritato un’opera di questo calibro. Il restauro è ora quasi completato e permetterà – si spera – una maggiore visibilità delle torri.
Covizzi, specializzata in gessi e affreschi, è giunta in California la prima volta chiamata dall’Università che doveva rimuovere un gigantesco affresco Wpa da un palazzo in demolizione, nel campus di San Francisco. Non esisteva in America un esperto con le necessarie qualifiche. Da allora svolge un’intensa attività su monumenti e residenze private – l’intima archeologia di una città nota per la rimozione della propria memoria storica. «Dopo la dipartita di Rodia, il sito viene abbandonato al vandalismo – racconta Covizzi –. La gente entra, inizia a salire sulle torri, stacca le cose, e a un certo punto viene considerato pericolante e pericoloso. Un cavo d’acciaio viene legato intorno a una delle torri e viene applicata una forza di migliaia di pound per cercare di tirarla giù. La torre non si muove, però le ruote dietro del camion si alzano: la prova che le torri non sono pericolanti. E rimangono stabili».

NATE FUORI Da ogni regolamento ufficiale, le torri sopravvissute sono oggi fra i monumenti più importanti e singolari di questa città votata all’impermanenza della cartapesta dei set di Hollywood. Nella metropoli delle finzioni, il monumento più celebre è proprio quella scritta a caratteri cubitali che campeggia sulle colline. Paragonata a quelle lettere – originariamente la pubblicità di un comprensorio – le torri di Rodia sono di ben altro spessore. «Lui era un piastrellista – spiega ancora Covizzi – uno che ha sempre fatto il manovale, che ha svolto mille lavori. Qui però si vede che lui era anche un artista, si vede dalle cose che ha costruito senza avere un background di architettura o di ingegneria. Arrivato in America da semianalfabeta, è riuscito a costruire queste strutture che oggi gli ingegneri non riescono a capacitarsi di come fanno a stare ancora in piedi».

Dopo un lungo oblio le torri sono state oggetto di ricerche e di studi, ad esempio quelli di Luisa del Giudice, studiosa e folklorista dell’Ucla, e di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, per citarne solo alcuni. Dai loro lavori nel 2009 è nato anche un programma di conferenze a Genova e Los Angeles patrocinato dalle rispettive università.
In tutto ciò, le torri sono rimaste impennate sulla pianta della città, enigmatici totem – monumenti alla compulsione dell’autore, forse anche alla sua nostalgia. Si spiega forse così quell’evidente riferimento ai gigli di Nola (a 40 km dalla città natale di Rodia) portati a spalla tuttora nella festa di San Paolino, assieme alla barca del santo. Nella sua scultura, Rodia mette anche quella, con la prua puntata ad Est, nella direzione del paese abbandonato da bambino e che non avrebbe rivisto mai più.
Anche il nome che lo stesso Rodia usava per l’opera: nuestro pueblo, «il nostro paese» in spagnolo, fa pensare, chissà, a un’àncora solida, nell’impermanenza che è condizione inscindibile dell’immigrazione.

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