Wael Zuaiter, è per me un ricordo bellissimo e insieme dolorosissimo. Ringrazio Tommaso Di Francesco per averne scritto dopo tanto tempo (su Alias di sabato 11), non solo perché in questo momento di pena per la Palestina noi italiani, cui ha insegnato la storia di questo paese, non possiamo non citarlo. Ma anche per un piacere più “privato” che proviamo noi vecchi e stravecchi del Manifesto, rimasti in pochi che, quando ci capita di ritrovare una preziosa memoria condivisa come questa di Wael Zuaiter, quasi ignota ai più giovani, ne siamo felici.

Io Wael lo conobbi quando erano ancora in pochi a sapere la vera storia della Palestina. Per me la scoperta avvenne nel ’67. Fu qualche settimana dopo la fine della guerra dei Sei giorni, poco dopo la sua interruzione con un cessate il fuoco. Ero stata mandata da Rinascita a seguire il primo dei tanti inutili convegni sul futuro di Gerusalemme che si teneva ad Amman e io non sapevo niente. Ricordavo solo vagamente la nascita dello Stato di Israele nel 1948 e il primo viaggio estero della prima ministra del nuovo stato, Golda Meir. A Mosca, perché fu l’Unione sovietica fra i primissimi a riconoscerlo, e lì “Golda” fu accolta con grande entusiasmo nel palazzo dei sindacati di Mosca, dove cantarono tutti insieme l’Internazionale. Mi era sembrato normale: l’afflusso in quel territorio degli ebrei europei dopo la guerra vedeva in grande numero i compagni del Kommunistisches Bund di Berlino che partirono per quel paese per creare un nuovo stato di sinistra, gli arabi, senza specificazioni, erano invece di destra, legati a piccoli stati feudali venduti all’impero britannico. Per il resto inesistenti. Anche per gli ebrei europei di sinistra proprio come per quelli di destra, tutti però arroganti occidentali. Il viaggio ad Amman fu per me l’inizio di una grande scoperta.

Fu durante l’inutile convegno su Gerusalemme che un paio di palestinesi avvicinarono me e una giornalista britannica chiedendoci se ci interessava visitare un campo profughi non lontano. Ho ancora attaccata alla parete una grande foto che lì mi regalarono, l’immagine della scuola, un grappolo di bambini a sedere nella sabbia.

Le nostre guide ci proposero un’altra tappa, una cittadina giordana proprio al confine con Israele. Ma quando arrivammo, nonostante il cessate il fuoco, improvvisamente arriva nel cielo uno stormo di aerei che comincia a bombardare. Ci gridano di gettarci sotto le auto per ripararci dalle bombe e lì restiamo, io e la giornalista inglese più spaventate perché non allenate alla guerra, per circa mezz’ora, poi gli aerei ripartono per Israele e noi, salvi, corriamo tutti all’ospedale cittadino dove già stanno arrivando i feriti colpiti dal raid. Sulla porta un giovane medico palestinese, da poco tornato dagli Stati uniti, dove era emigrato, per essere a fianco del suo popolo. Fra le braccia ha una bambina appena uccisa che, quando mi vede arrivare, mi mette fra le braccia e, guardandomi in faccia mi dice: «Così comincerete a capire cosa è la storia della Palestina». Poi mi prende e mi trascina dentro i corridoi dell’ospedale dove già si ammucchiano i feriti appena arrivati, molti per terra, ancora accanto a quelli ormai già cadaveri – come in queste ore, 56 anni dopo, nell’ospedale Shifa di Gaza.

Fu per me una svolta di vita, perché da allora e per decenni ho finito per andare e venire da Amman, Beirut, Ramallah, Gaza. Fino a quando mi hanno presa per i piedi all’aeroporto di Tel Aviv e, trascinandomi sulla schiena lungo il corridoio mi hanno gettato su un aereo per Milano con un timbro sul passaporto con su scrutto: «Persona non grata». (Con me Claudio Sabbadini, segretario della Fiom, lui però sulle sue gambe perché ignaro delle usanze pacifiste che insegnano in questi casi a mettersi a sedere per terra e fare resistenza passiva).

Nel ’67, quando tornai da Amman, scrissi l’articolo sul convegno che ero andata a seguire e, ovviamente, parlai a lungo di quella che per me era stata una scoperta: Al Fatah, e la guerriglia avviata. Ebbi problemi, il Pc palestinese era contrario ( cambiò tuttavia subito parere) e la disciplina comunista che allora vigeva non consentiva di contraddire. Lo feci lo stesso sia pure senza l’enfasi che avrei voluto. Due giorni dopo, mentre ero nella mia stanza all’Udi – dove ero stata mandata quando, dopo l’undicesimo congresso del PCI, nel ’64, fu reso esplicito il dissenso della c.d. corrente ingraiana, molti di noi futuri manifestini fummo allontanati da Botteghe Oscure – sento bussare alla porta. Era un giovane palestinese, che mi disse : «Sono venuto a ringraziarti perché sei la prima in Italia ad aver nominato Al Fatah». Era Wael Zuaiter.

Diventò il mio tramite costante, con lui mi ritrovai proprio ad Amman, in occasione della tragica cacciata dei palestinesi dalla Giordania, il famoso “Settembre nero” del 1970. E poi, sempre come inviata del manifesto, quando, non più rivista eravamo diventati quotidiano, fui a Monaco, per alcuni giorni dentro il recinto delle Olimpiadi, sotto le finestre della palazzina dove i guerriglieri palestinesi avevano recluso gli ostaggi israeliani. Col cuore spezzato noi giornalisti assistemmo tutti alla tragica conclusione. Appena tornata a Roma corsi da Wael per raccontargli, e insieme piangemmo anche per quanto era avvenuto il giorno seguente al massacro di ostaggi e guerriglieri: la grande festa finale delle olimpiadi nello stadio di Monaco, attorno le bandiere di tutti gli stati del mondo. Uno solo assente: quello palestinese.

Vi ho raccontato tutte queste cose perché rendono più chiare anche a me, ancora una volta, proprio come è accaduto quando è scoppiata la guerra dell’Ucraina, quanto sono gravi le continue intermittenze del movimento per la ‘pace. Per quella dell’Ucraina, non aver seguito e denunciato, quanto l’Occidente ha fatto dopo che Gorbaciov aveva acconsentito alla riunificazione della Germania e allo scioglimento del Patto di Varsavia in cambio di un contenimento della Nato (un patto scritto ancorché riservato). In questa guerra di Gaza di essersi da anni ormai distratti da quanto ha continuato ad accadere in quei territori. Sono felice ora solo per una cosa: che abbiamo un segretario generale dell’Onu, il solo che ha detto: Hamas sbaglia ma non è caduto dal cielo, è il risultato di tutto quello che Israele ha fatto.

L’altra sera La 7 ha trasmesso un bellissimo reportage di Francesca Mannocchi. Cercatelo: sono tante interviste ai bambini di Gaza fra le macerie. Alla domanda: «Cosa vuoi fare da grande?», rispondono tutti: «Combattere».

Noi non possiamo fare molto, ma impegniamoci almeno a raccontare ai distratti la vera storia della Palestina.