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Wael Zuaiter, Fatah e le ragioni della Palestina: una cartolina dagli anni ’70

Wael Zuaiter, Fatah e le ragioni della Palestina: una cartolina dagli anni ’70

La storia Quando Janet Venn-Brown partì da Roma per tornare nella sua Sidney, dove è morta nel 2016, ci lasciò un pesante faldone, pieno di documenti di – e su – Wael Zuaiter, e una preghiera che per noi è un impegno: «Scrivi su Wael, non farlo dimenticare mai». È quello che facciamo riproponendo l’intervista che le facemmo nel 2006, riveduta alla luce di novità emerse e proprio in questi giorni di fronte all’ultima tragedia palestinese in corso

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 11 novembre 2023

«Erano nascosti lì, in quell’albergo, quelli che poi lo hanno ucciso. Da lì controllavano tutte le nostre mosse e vedevano i movimenti di Wael. L’abbiamo saputo dopo dagli atti del processo». Dal balcone della casa Janet indica due piani rialzati, assolutamente in violazione della legge urbanistica, dell’hotel Atlante proprio davanti alla sua piccola ma straordinaria casa dietro Castel Sant’Angelo. La mostruosità limita appena la vista del Cupolone; ma svetta a destra l’osservatorio di Monte Mario.

È la luce di Roma che rende giustizia e attualità alla storia del palestinese Wael Zuaiter, prima ancora delle parole della donna, piccola, minuta, ormai anziana ma dolce e fortissima che ci parla. È Janet Venn Brown, una pittrice australiana che dalla baia di Sidney ha preferito da molti decenni vivere in Italia. Qui negli anni Sessanta ha conosciuto Wael Zuaiter, l’intellettuale che rappresentava Al Fatah, non esisteva ancora nessuna direzione unificata dell’Olp e tantomeno l’Anp. La questione palestinese era vagabonda, proprio come Wael che da Nablus, per studi e lavoro prima e poi per l’occupazione della Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano nella guerra dei sei giorni del 1967, aveva vissuto in tutte le capitali arabe, da Amman a Baghdad a Kuwait city.

Fino ad arrivare in Germania e all’approdo in Italia, prima a Perugia, poi a Roma. Dove, la sera del 16 ottobre 1972, venne assassinato da agenti israeliani in un’operazione segreta del Mossad coordinata direttamente dall’allora premier Golda Meier, come rappresaglia mirata per punire i presunti responsabili del sequestro e della strage di Monaco del settembre `72.
Wael Zuaiter fu la prima vittima di quella sequenza di morte che vide cadere altri nove esponenti palestinesi in Europa e in Medio Oriente.

«Il nemico vide in lui un gigante… e non può essere morto, non si possono strappare le radici degli ulivi e delle querce. Egli è vivo nella memoria del suo popolo…»: questo scrisse Yasser Arafat di lui. Coi tempi che corrono in Palestina verrebbe voglia di dire che per lui non può bastare la tomba eretta nel cimitero dei martiri palestinesi di Damasco, verrebbe voglia di sapere davvero se è ricordato nella sua terra, se qualcuno ha fatto tesoro della sua laicità e cultura, della sua particolare modernità. Comunque sia, insieme a tanti che l’hanno conosciuto e stimato, c’è una persona che davvero ama ancora Wael come se fosse rimasto con lei in quella stanza piccola ma luminosa. E che ci accoglie affettuosa: «Siediti lì in quella poltroncina marrone, Wael diceva che era un posto sereno».

«Con segnalazione del 17 ottobre 1972 l’Ufficio Politico della Questura di Roma informava la Procura della Repubblica in sede che verso le 22,20 della sera precedente nel cortile dello stabile sito in via Annibaliano n. 4 era stato rinvenuto il corpo esanime di un uomo, subito identificato per il cittadino giordano Zuaiter Wael Adel, traduttore presso l’ambasciata di Libia in Italia. Vicino al cadavere, in prossimità dell’ascensore, gli agenti della Scientifica avevano repertato dodici bossoli di cartucce da pistola cal. 22. Con rapporto in data 19/10/1972 la PG precisava che il giovane – rappresentante del movimento di resistenza palestinese `al-Fatah’ – era stato attinto da colpi di arma da fuoco al capo e alle spalle» (Dagli atti del processo, Corte di Assise Roma, 29 dicembre 1980).

Il corpo, riverso di lato in una pozza di sangue che si allarga dalla testa, mostra il profilo di Wael, sembra che dorma.

«Era bello, vero..? Era magro e i suoi occhi… oh, i suoi occhi. Erano la sorpresa di tutti, voglio dire uomini e donne – dice Janet quasi bisbigliando e come se fosse accesa in volto – c’era qui sotto una vicina che appena seppe dell’uccisione salì da me piangendo a consolarmi dicendomi: ma come hanno potuto assassinare un uomo che aveva gli occhi così dolci e che era così gentile.

E pensare che era andato via quella sera perché doveva tornare a via Annibaliano, ma era allegro. Avevamo scherzato, io ero mancata per più di un mese perché ero stata in Australia per la mia attività di pittrice. Proprio quella sera Wael rideva di cuore, era contento perché il medico da cui era stato gli aveva detto che stava benone e che avrebbe campato più di cent’anni. E invece dopo un’ora l’hanno ammazzato. Era andato via da poco. E risuonò il campanello. Che hai dimenticato, Wael? Invece no, era la polizia. `Venga subito… si vesta… c’è stato un incidente’. Ma già sull’ascensore chiesi agli agenti se l’avevano ucciso. Risposero di sì.

Era bello Wael. Ho visto il film di Spielberg Munich. È un film importante che dice cose nuove: fa dire alla fine proprio agli stessi agenti del Mossad (dall’attore Eric Bana) impegnati nelle esecuzioni mirate che la rappresaglia era sbagliata, aveva colpito chi non c’entrava con Monaco e aveva innescato un nuovo impegno dei palestinesi. E che arriva alle mie stesse conclusioni, alle mie domande di allora. Che senso poteva avere se non quello di alimentare nuovi odi e rappresaglie, l’aver assassinato un uomo colto e buono, che parlava di pace, che viveva immerso nei libri di cui quasi si cibava e che rispettava gli ebrei? E che non aveva nulla a che vedere con l’azione di Settembre nero?

Wael aveva visto i massacri di Amman del settembre 1970, aveva schivato i proiettili dei fucilieri dell’esercito giordano di re Hussein, aveva visto quel `settembre nero’ ma non aveva mai portato un’arma. Tutti giravano armati in quei giorni di sangue, furono duemila i palestinesi uccisi.

Lui no. Lavorava giorno e notte su un altro fronte prezioso in quei giorni, come testimoniò il dirigente comunista italiano Romano Ledda: organizzava il rifornimento di pane ai quartieri palestinesi bombardati, rischiando la vita ogni giorno. Ecco, questo era Wael. Quando ci fu Monaco nel settembre 1972 eravamo in questa stanza e mi disse subito: «Noi non siamo questo, non siamo questo». Quando tutto accadde pensai a quello che Wael aveva fatto negli ultimi tempi.
Non mi parlava molto del suo lavoro, ma un giorno mi disse «vedrai, mi uccideranno, sembra incredibile anche a me, ma lo faranno».

Io non capivo, non riuscivo a capire, anche perché mi spiegò che proprio per quel motivo aveva deciso di rimanere a Roma e di non partire più per il Medio Oriente dove avrebbe dovuto andare per lavoro. Si era preparato, per questo aveva voluto distruggere tutte le poesie che aveva scritto, non voleva che venissero pubblicate dopo la sua morte.

Non credevo che potesse accadere – dice Janet con un sospiro -. Ora so che la strategia di uccisioni che il film di Steven Spielberg attribuisce alla preparazione di una lista (la «lista Golda» dal nome del premier israeliano Golda Meier, ndr) non aveva alcun riferimento specifico ai responsabili del sequestro di Monaco e della strage che ne seguì, la cui responsabilità non è certo palestinese, come del resto fa vedere il film di Spielberg. No, l’iniziativa delle esecuzioni mirate, come dimostrarono a distanza di poco tempo le molte altre uccisioni di rappresentanti di Al-Fatah e di intellettuali palestinesi in Europa e in Medio Oriente, approfittò di Monaco per colpire ed eliminare ogni palestinese che potesse rappresentare la possibilità di un radicamento culturale e politico del movimento di resistenza, per spezzare così tutti i faticosi legami e fili intessuti con le realtà politiche e culturali occidentali e isolare ancora di più quel popolo. Ma una cosa la voglio dire. Nel film di Steven Spielberg Wael è un uomo grassoccio, anzianotto e greve che quasi emana cose sordide, dal sorriso beota, goloso e pieno di roba da mangiare. Glieli avevo dati io i panini che aveva nel suo eterno sacchetto di plastica che ritrovarono accanto al corpo senza vita con la radiografia del 16 ottobre nella quale il medico certificava la sua salute. Ed era magro e bello».

Alcuni giovani italiani e arabi trasportano casse. Portano il peso con attenzione. Ali decide di usare l’ascensore, Wasim fa due piani di scale con uno scatolone in mano, poi rinuncia e continua a caricare l’ascensore. Devono arrivare al quinto piano. Stanno aiutando Wael Zuaiter ad allestire il centro di cultura mediorientale. «Sì, tra gli appartamenti e le abitazioni civili – racconta Janet – avete capito bene. Wael, di ritorno dal Kuwait dove aveva lavorato per molti mesi facendo ogni lavoro possibile, dal traduttore al fattorino, guadagnando bene perché allora il Kuwait era il paese più ricco del Medio Oriente, aveva pensato di spendere tutto quello che aveva guadagnato in libri. Le armi di Wael erano i libri. Aveva un ottimo rapporto con molti scrittori, da Pasolini a Moravia che aveva accompagnato in un viaggio a Bassora. Amava tutti i libri del mondo. E li aveva portati in Italia con un trasporto allora costosissimo. Da tutto Dante e Goethe in arabo, a Jean Genet e agli ultimi racconti di Ghassan Kanafani, fino ai raffinati volumi rilegati in pelle delle Mille e una notte – che Wael cominciò anche a tradurre e che non smetteva di leggere ogni giorno, e ogni giorno ci trovava qualcosa di nuovo che lo faceva ridere perché, diceva: «È il mio mondo, scopro sempre una novità nel linguaggio e nei fatti che prima non avevo capito». Quando l’hanno ucciso stava tornando a casa per scrivere un saggio proprio sulle Mille e una notte, per dimostrare che nella cultura araba non c’è mai stato odio antiebraico che invece è un contenuto negativo proprio dell’Occidente. Voleva pubblicarlo, questo saggio, anche perché era arrabbiato: aveva scritto un testo che l’Espresso gli aveva chiesto per spiegare le ragioni della lotta palestinese contro l’occupazione israeliana, e l’articolo non usciva mai per evidenti problemi politici. Uscì invece come a dir poco tardivo e colpevole scoop nei giorni immediatamente successivi all’assassinio di Wael con il titolo Testamento di un palestinese.

Ma parliamo ancora della biblioteca-centro culturale per la quale spendemmo molti soldi anche per le scaffalature. C’erano volumi e volumi su e di Avicenna ad Averroè, centinaia e centinaia di classici, dai mistici agli algoritmi, fino alla musica. «Ecco – continua Janet -, Wael aveva studiato musica, non so se in Germania, primo paese europeo dove era arrivato dal Medio Oriente, ma sicuramente a Perugia. So per certo che parlava per ore di musica con Bruno Cagli, che ora dirige Santa Cecilia, e con Luigi Pestalozza. Parlavano delle sinfonie di Gustav Mahler, Wael era completamente catturato da quelle arie.
Quando l’ho conosciuto, nel 1962, mi venne presentato come interprete d’inglese mentre allestivo la mia prima mostra in Italia a via Margutta. Era il mio traduttore e poi mi aiutò a smontare tutti i quadri. La sera tarda ce ne andammo a passeggiare per il Corso e Wael correva di qua e di là cantando a squarciagola in inglese sonetti e canzoni di Shakespeare».

Autunno 1969. Nell’ingresso della Federazione romana del Pci stanno arrivando i primi pacchi del bollettino-rivista Palestina. Prima si chiamava Rivoluzione palestinese. Sopra un grande cartello: «I compagni delle sezioni devono ritirarlo e diffonderlo». Per la rivista, diretta da Pietro Petrucci, per il Comitato Palestina, composto prima dai soli comunisti, poi da socialisti e democristiani di sinistra, il ruolo di Wael Zuaiter fu decisivo. Fu lui a curare l’edizione italiana del settimanale di Al Fatah che uscì mensilmente. Fu lui che decise di parlare con tutti i partiti, meno che con i fascisti. Roma aveva scoperto Wael Zuaiter una sera in una sezione fumosa del Pci del centro.

«Abitavo allora quasi dentro il Ghetto – racconta Janet – c’era stata la guerra dei Sei giorni, era il 1967. Allora cominciò davvero il lavoro politico di Wael che si sentiva a pezzi, sconfitto. Mi disse che doveva andare ad una iniziativa nel ghetto, c’erano per strada i manifesti del Pci che annunciavano Piero Della Seta – poi sarebbe diventato un suo grande amico, come Luciana Castellina – impegnato a parlare del ruolo della pace e di Israele in Medio oriente dopo quella guerra. La sezione del centro era frequentata da tanti ebrei comunisti, allora la comunità ebraica era di sinistra. La guerra nella quale Nablus, la città dove Wael era nato nel 1934, e tutta la Cisgiordania erano state occupate dall’esercito israeliano. Dopo tutti gli interventi e le polemiche interne, lui alzò la mano dal fondo della sala e cominciò a spiegare e a rispondere con chiarezza ai luoghi comuni di molti intervenuti. E ricordo che alla domanda secca e infastidita del tavolo della presidenza: ma, scusi, lei come sa queste cose, Wael rispose sereno e illuminato: «Le so perché sono palestinese». Insomma il popolo che non esisteva e la cui terra sarebbe stata vuota e pronta da occupare, all’improvviso prese corpo dentro quella stanza. E Wael sollevò una terribile domanda. «Perché un popolo che ha sofferto l’Olocausto, fa tutto questo a noi?». E ricordo che allora Piero Della Seta lo invitò subito al tavolo della presidenza, ma Wael rifiutò. Amava far valere le sue idee, non amava essere presente a tutti i costi o essere protagonista. Era presente anche Ennio Polito, allora redattore de l’Unità che Wael stimava molto e che diventò un suo grande punto di riferimento».

A proposito di protagonista, Wael nel suo vagabondare da un lavoro ad un altro – aveva studiato da ingegnere in Giordania ma aveva lasciato l’università – aveva tentato la carriera cinematografica a Cinecittà tra tante comparse. Nel film La Pantera rosa di Blake Edwards del 1963 fa una «decisiva» comparsa: è il cameriere che gira tra gli invitati offrendo cocktail a David Niven e Claudia Cardinale. Per un altro film avrebbe dovuto dire perfino due battute. «Pronto ciak», raccontava Wael, e lui rimase zitto; «rifacciamola», rassicurava il regista che non ricordo chi fosse; «pronto ciak», niente; terzo ciak, silenzio. Una carriera da attore bruciata. E ridevamo».

Alla sua morte Elio Petri e Ugo Pirro raccolsero materiali per farne un film. «Un palestinese armato di armi e di disperazione – commentò Elio Petri – è, in definitiva, un nemico meno pericoloso. Quello che è sempre pericoloso è un nemico armato di cultura, di pazienza, di senso della storia e di umanità».

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