Vollmann, in un battito di ciglia, l’orgia del dolore
Scrittori statunitensi Convocate su pagine insolitamente concise e frammentarie, tutte le varianti della depravazione nascondono l’eccezionale empatia di William Vollmann: «L’atlante», da minimum fax
Scrittori statunitensi Convocate su pagine insolitamente concise e frammentarie, tutte le varianti della depravazione nascondono l’eccezionale empatia di William Vollmann: «L’atlante», da minimum fax
Chiunque abbia familiarità con l’opera di William T. Vollmann sa che la concisione non è tra le sue aspirazioni: è famoso, infatti, per non dire famigerato, per essere un autore torrenziale, capace di scrivere opere enciclopediche – come nel caso dell’incredibile trattato sulla violenza, Rising Up and Rising Down (pubblicato da noi in versione estremamente ridotta con il titolo di Come un’onda che sale e che scende), che arriva a superare ampiamente le tremila pagine. Anche i romanzi dell’ancora incompiuto ciclo dei «Sette sogni» sono storie imponenti, dedicate alla colonizzazione europea del continente americano, il cui sottotitolo, A Book of North American Landscapes, suggerisce il desiderio smisurato di trasferire in quelle pagine l’immensità geografica, e non solo, del continente.
Questo stesso desiderio si ritrova intatto nella silloge dei resoconti di viaggio che Vollmann ha scritto dai luoghi più disparati della terra, durante quello che ha chiamato il suo periodo da «giornalista mercenario», raccolti sotto il titolo L’atlante (traduzione di Cristiana Mennella, Minimum Fax, pp. 532, € 20,00). Qui però la concisione è spesso radicale, e l’essenzialità dello stile cerca di stringere l’oggetto del racconto in un battito di ciglia, suggerendo tuttavia la complessità irriproducibile dell’esperienza umana. Nella prefazione Vollmann dichiara infatti il suo omaggio ai Racconti in un palmo di mano di Yasunari Kawabata, opera che – come scrive – legge ogni sera prima di addormentarsi.
Dettaglio curioso, il libro è organizzato secondo una logica palindromica. Al centro, il racconto più lungo, «che contiene un poco di tutti gli altri» e che dà il titolo alla raccolta, e intorno una serie di vignette di lunghezza variabile, da poche righe a una manciata di pagine, che si rispecchiano specularmente l’una nell’altra. L’influenza dichiarata di Kawabata è evidente negli episodi più asciutti, che condensano in poche, essenziali suggestioni, il brulichio umano dei luoghi esplorati.
Del tutto inusuale per Vollmann, questa estrema frammentazione sarebbe funzionale secondo le sue intenzioni a sfruttare L’atlante come libro da comodino: una lettura poco impegnativa alla quale dedicarsi prima di spegnere la luce. Il consiglio di leggere i racconti per conciliare il sonno sembra, tuttavia, piuttosto sardonico. Contrariamente al suo predecessore, e in aperta ribellione contro l’ordine matematico dei testi, Vollmann non sembra mosso da alcun desiderio di equilibrio: tutte queste storie traggono ispirazione dagli abissi più oscuri e violenti delle società con cui è venuto a contatto, e sembrano contenere a malapena il caos ribollente che le anima.
Dalle zone di guerra dei Balcani dilaniate dal conflitto etnico ai quartieri più malfamati del sudest asiatico, dove prostitute e tossicodipendenti si trascinano per le strade come fantasmi, questi haiku decadenti mostrano un’umanità disperata e lontana da ogni possibile salvezza: e anzi, fermamente indirizzata verso un’autodistruzione ostinata e totale.
Vollmann sfoglia le sue carte geografiche e vi si immerge come in una catabasi, scende agli inferi con l’intento di sperimentare su se stesso il degrado che lo circonda e dal quale è evidentemente attratto. Tra pipe per il crack ricavate da bottiglie di vodka ripescate dalla spazzatura, corpi crivellati di pallottole o smembrati dalle bombe e braccia martoriate da anni di tossicodipendenza, non c’è orrore dal quale l’autore si ritragga. Ma – e qui sta la grandezza di questi testi tanto cupi, disturbanti e spesso venati di una sorprendente ironia – Vollmann non è mai mosso da un morboso intento documentario né dal desiderio di strappare al lettore il brivido facile del disgusto. Nel sangue, nell’abbandono, nel sesso, tutti sgradevolmente dipinti con abbondanza di dettagli, si nasconde quella eccezionale empatia che è propria di Vollmann, un sentire fraterno di rara sensibilità, che provoca un moto di autentica tenerezza in questi tempi di relazioni asettiche vissute a distanza e in una sicurezza domestica venata di misantropia.
L’espressionismo di Vollmann, che sembrerebbe derivato dalla lezione di William Burroughs più che dalla tradizione orientale alla quale si richiama, mentre scava nell’eccesso riabilita la sofferenza e la rovina senza tuttavia strapparle alla cupezza e allo squallore attraverso una romantizzazione fraudolenta. Di più: soffermandosi sulla incurabilità di quel dolore che riguarda indistintamente tutti i personaggi di queste geografie dello sfacelo, l’autore si direbbe mosso dal desiderio di trarre in salvo tutte le vite precarie che incontra, donando loro, quanto meno sulla pagina, la redenzione negata in vita. Lo si percepisce con particolare chiarezza nelle numerose prostitute che popolano i racconti dell’Atlante, figure ricorrenti nell’immaginario di Vollmann, che ha dedicato loro un altro libro tenero e crudele, Storie della farfalla, qui rielaborato nella serie dei frammenti in cui il protagonista si muove come un sonnambulo in una Phnom Penh febbricitante. Nella ricerca ossessiva di compagne a pagamento si rivela il desiderio, condannato sul nascere, di riscattare queste donne perdute e allontanare più a lungo possibile la morte che su di loro incombe. In uno dei capitoli più trasparentemente autobiografici del testo, «Sotto l’erba», questa sorta di coazione è spiegata con il senso di colpa che ossessiona Vollmann da quando la sorella, che gli era stata affidata dai genitori, morì affogata. Il fatto riaffiora a più riprese, sotto forme diverse e in diversi punti della mappa, suggerendosi come centro traumatico del libro e ragione al cuore dei vagabondaggi instancabili dello scrittore. Lungi dall’associarsi al vuoto e all’afasia, Vollman cerca chiaramente di curare il trauma tramite le parole, anche le più terribili, che in questo Atlante sembrano offrirsi come via di scampo da un mondo sull’orlo del collasso, spietato, sporco, infetto.
Un breve scambio ironico, contenuto nella sezione che chiude la raccolta, funziona da elemento rivelatore: «Vuoi un po’ d’amore?, disse una puttana. Il mio problema è il troppo amore, disse lui». Proprio un eccesso di empatia – radicale, disperata, indistintamente diretta verso ogni essere umano – lega insieme le pagine buie dell’Atlante, mantenendo nel dolore, che tutto avvolge, un graffio di luce.
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