La mostra Rudolf Levy, l’opera e l’esilio è il risultato della volontà, e della penultima fatica, di uno studioso che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare per un decennio, fino alla sua recente scomparsa. Klaus Voigt (Berlino 1938 – Berlino 2021) era stato, durante i suoi soggiorni romani negli anni a cavallo del secolo, interlocutore soprattutto di mio padre, Heinrich Steiner, amico e unico allievo del pittore Rudolf Levy, arrestato a Firenze nel 1943 e oggi «tornato» nella città che per alcuni anni – Levy nel dicembre del 1940 si trasferisce da Roma a Firenze – sarà il loro comune rifugio (un sodalizio rievocato in alcune memorabili pagine apparse sul manifesto del 22 marzo 1995). Klaus Voigt non ha fatto in tempo ad assistere all’inaugurazione della mostra da lui così fortemente voluta (e che gli è dedicata), né potrà vedere la pubblicazione del suo ultimo libro: una biografia storica dedicata proprio a Rudolf Levy, di cui nell’estate del 2021 stava redigendo il capitolo finale. Il dattiloscritto è ora affidato all’amica e storica dell’arte Brigitte Bruns, che ne curerà la pubblicazione in Germania. Un’anticipazione, fortunatamente, era stata consegnata da Voigt in vista della mostra ed è riprodotta nel catalogo.

Negli ultimi anni, e in particolare dopo la scomparsa di mio padre nel 2009, le indagini di Voigt su Levy mi avevano coinvolto in prima persona. Ebbi, così, l’occasione di seguire, ammirato, il metodo di lavoro di questo studioso in apparenza fuori dal tempo: Klaus Voigt lavorava in solitario, non era affiliato ad alcuna istituzione accademica, era il prototipo del Privatgelehrter, dello studioso indipendente, una figura ormai quasi letteraria. La sua era, però, una solitudine gioiosa e straordinariamente produttiva, puntellata da numerose e, perché no?, strategiche amicizie sparse in tutti i paesi in cui, partendo dalla sua base berlinese, lo conducevano le sue ricerche. In Italia soprattutto, ma anche in Francia, Spagna, Israele. Amicizie che Voigt coltivava inviando lettere e cartoline e che ragguagliava con lunghe telefonate, convertendosi, in ultimo, all’uso del cellulare.

Il principale merito dello studioso berlinese è quello di aver avviato le indagini sull’immigrazione degli ebrei stranieri in Italia durante il ventennio: com’è possibile – ecco la domanda di fondo da cui era partito – che persone perseguitate dal nazionalsocialismo abbiano trovato rifugio nell’Italia fascista? Impossibile elencare, in questa sede, i passaggi esistenziali e la prodigiosa opera di questo studioso che – come ricorda Orietta Altieri – «ha affrontato precise tematiche di ricerca solo per interesse personale e per puro piacere» (in Klaus Voigt. Una bio-bibliografia, «Qualestoria» 1, 2022). Su metodologia e procedere critico dell’analisi voigtiana ha offerto una traccia illuminante Michele Sarfatti (Klaus Voigt e la nuova storia dei profughi in Italia) durante il convegno di studi dedicati alla memoria di Rudolf Levy, svoltosi all’indomani dell’inaugurazione della mostra fiorentina e di cui sarebbe auspicabile la pubblicazione degli atti.

Parimenti impossibile, però, non ricordare almeno alcuni capisaldi della sua opera di studioso e di organizzatore e mediatore culturale: i due monumentali volumi Zuflucht auf Widerruf. Exil in Italien 1933-1945 pubblicati, rispettivamente, nel 1989 e 1993, entrambi tradotti da Loredana Melissari con il titolo Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945 e apparsi per i tipi della Nuova Italia (1993 e 1996); la mostra Rifugio Precario. Artisti e intellettuali tedeschi in Italia 1933-1945 / Zuflucht auf Widerruf. Deutsche Künstler und Wissenschaftler in Italien, organizzata in collaborazione con l’Akademie der Künste di Berlino e allestita prima a Palazzo della Ragione di Milano e poi a Berlino, accompagnata da un importante catalogo bilingue; le indagini avviate alla fine degli anni novanta sulla vicenda dei ragazzi di Nonantola, fino ad allora sconosciuta, e poi confluite nelle 366 pagine del volume Villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga (2002, Nuova Italia)…

Klaus Voigt amava gli archivi (ricordo la sua esaltazione quando mi annunciò di aver trovato, nell’Archivio di Stato all’Eur di Roma, un faldone relativo a Rodolfo Levy, e la sua delusione quando si rivelò trattarsi di un omonimo del pittore!), amava l’Italia (ai resoconti di viaggiatori italiani nella Germania del Tardo Medioevo aveva dedicato la sua tesi di laurea, parlava correntemente l’italiano e da molti decenni trascorreva i mesi estivi in una casa sul lungomare di Terracina, in compagnia della madre e di amici). E amava l’arte: in uno dei nostri incontri a Firenze – era nel settembre del 2020 e Klaus, accompagnato dall’amica Camilla Brunelli, direttrice del Museo della Deportazione di Prato, aveva un primo appuntamento con il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, e con le storiche dell’arte Susanne Thesing e Vanessa Gavioli, per discutere della futura mostra – si raccomandò, in caso che il progetto si realizzasse, di mettere a disposizione l’ultimo quadro di Levy. Si tratta del ritratto, incompiuto, di una giovane donna che suona la chitarra su cui Klaus si soffermava molto, ogni volta che lo vedeva a casa dei miei genitori. Oggi il quadro è in mostra a Palazzo Pitti, in compagnia di altri ritratti, paesaggi, nature morte, opere mai prima riunite in un contesto così magnifico e…solenne.