Le dimissioni della presidente di Harvard potrebbero a prima vista apparire come inevitabile sanzione di una plagiatrice antisemita, giunta con l’inganno all’apice dell’istituzione universitaria più prestigiosa d’America e smascherata come impostora. È questa, certo, la versione che imperversa sui canali della destra americana, dove lo sdegno ostentato si mescola alla malcelata soddisfazione per il trofeo portato a casa con l’allontanamento di Claudine Gay. La politologa, figlia di immigranti haitiani, prima donna afroamericana assurta al vertice del sistema universitario era stata simbolo di definitiva integrazione dell’ateneo più connesso all’apparato dirigente. Il suo mandato, concluso dopo sei mesi, passa invece ora agli atti come il più breve di sempre. All’ex presidente tocca l’ignominia di rappresentare, come ha chiosato un commentatore di Fox News, «tutto ciò che c’è di marcio nelle élite di sinistra che riservano per sé il sogno americano, mentre disprezzano gli americani che lavorano».

IL TONO della retorica colloca la vicenda nel mezzo del conflitto politico in atto in un a stagione elettorale già arroventata e fa della professoressa Gay un capro espiatorio collaterale di quella che si prefigura come lotta senza esclusione di colpi. In realtà il destino dell’amministratrice è stato segnato sin dall’audizione della commissione parlamentare che ad inizio dicembre aveva convocato Gay assieme alle rettrici di Mit e dell’università del Pennsylvania. L’udienza sull’istruzione superiore celava un interrogazione-trabocchetto sull’«antisemitismo dilagante» nei campus.
A Gay è stato così chiesto cosa intendesse fare per impedire «invocazioni allo sterminio degli ebrei». «Dipende dal contesto», è stata la risposta tecnicamente corretta di Gay in regime di primo emendamento e mentre le università sono oggetto di una campagna per silenziare l’opposizione alla guerra. Nel teorema di lobby filoisraeliane come Aipac (American Israel Public affairs committee) l’antisemitismo è intenzionalmente allargato ad ogni critica all’operato di Israele o solidarietà con le vittime di Gaza (comprese le numerose voci di ebrei contrari alla guerra). Nell’udienza la parlamentare trumpista Elise Stefanik ha ripetutamente chiesto che fossero messe al bando «apologie di genocidio», spiegando come queste comprendano slogan su «resistenza armata» o «intifada».

La difesa del principio di libera espressione, additata come fiancheggiamento antisemita, sarebbe subito costata il posto alla presidente di U Penn Liz Magill, e sarebbe pesata come un macigno sulle sorti di Gay. Quest’ultima è stata inizialmente difesa da Harvard, che in seguito alla mobilitazione di studenti e ad una petizione di 400 intellettuali contro lo strumentale attacco politico, aveva affermato la propria solidarietà. È stato a questo punto che sono d’improvviso affiorate le “rivelazioni” su istanze di plagio in alcune pubblicazioni di Gay.

ANALISI EFFETTUATE con programmi di intelligenza artificiale hanno effettivamente rivelato molteplici casi in cui lavori pubblicati da Gay contenevano frasi tratte da altri autori senza i virgolettati e le note richieste dagli standard accademici. Malgrado gli stessi autori abbiano difeso le «citazioni» come deontologicamente lecite, queste avrebbero infranto le regole cui devono sottostare gli stessi studenti di Harvard e, specie con le crescenti minacce di boicottaggio da parte di importanti sostenitori finanziari, la sua posizione è divenuta insostenibile.

L’origine delle rivelazioni, e di una operazione attentamente coordinata per “ottenere la testa” di Gay, sono nel frattempo a loro volta emerse quando su X Christopher Rufo ha esultato, salutando l’annuncio delle dimissioni con un laconico «Scalpo!». L’autore del tweet ha poi rivendicato la paternità dell’operazione confermando che le analisi testuali erano state sponsorizzate da organizzazioni conservatrici. Rufo è un rampante attivista conservatore ed astro nascente delle culture wars. Californiano, madre americana e padre di Frosinone, Rufo collabora con think tank reazionari, comela Heritage Foundation ed il Claremont Institute, dove si produce la teoria politica che alimenta la destra populista sui temi di immigrazione, identità ed egemonia culturale. In quest’ultima è specializzato Rufo, assunto di recente da Ron DeSantis nel board di New College Florida, come parte della «riappropriazione» conservatrice degli atenei statali. Come tale, Rufo è stato fra gli architetti della legge Don’t Say Gay che vieta l’insegnamento di temi Lgbtq, oltre che uno dei primi fautori della conversione della critical race theory in parola chiave e slogan multiuso per attaccare «l’indottrinamento woke» da parte «dell’estrema sinistra che controlla le università».
Nella concezione del nuovo egemonismo culturale di destra, dall’educazione universitaria andrebbero invece estirpati i concetti “alieni” di critica e giustizia sociale, per tornare ai valori essenziali di patriottismo e «verità». Un obbiettivo che necessita, si capisce, una adeguata revisione atta a bonificare la memoria storica da riferimenti ad iniquità di classe e razza che ostacolino un adeguato orgoglio nazionale.

L’ATTACCO a mezzo secolo di cultura accademica si ricollega a quello più generale alle politiche di inclusione ed alla affirmative action istituite per rettificare storiche discriminazioni razziali e sociali. In questo senso, il sottotesto, affatto recondito, negli editoriali e nelle diatribe seguite al caso Harvard, è che la figura di Gay, donna e nera in una posizione che gli competeva solo per favoritismo di quota, rafforzi, in un unico simbolo, il concetto di sinistra come titolare, ugualmente illecita, delle istituzioni culturali che è ora di riportare ai giusti valori di tradizione ed americanità – con ogni mezzo necessario. Dopo il “successo” ottenuto ad Harvard, Rufo ha annunciato una “taglia” di $10000 a chiunque riesca trovare altri casi di plagio nei curriculum di docenti progressisti.