La parola «oyibo», con la quale i nigeriani indicano le persone bianche di discendenza europea, o quelle di pelle nera, che non sono però di cultura africana, compare in quasi ogni pagina di Black Tulips (Einaudi, pp. 232, € 17,00), il romanzo postumo di Vitaliano Trevisan, funzionando per molti versi da fulcro attorno al quale si sviluppa un’operazione di scrittura che testimonia, nella fratturazione del testo, dove sono inserite ‘avvertenze’ destinate a accompagnarlo come i bugiardini di un farmaco, uno sfondamento sempre più radicale della forma narrativa.

Il suono della parola «oybo» circonda infatti il corpo del soggetto di questa sorta di diario frammentato, non appena arriva a Lagos, dove è andato a incontrare Ade, una delle prostitute che ha frequentato a Vicenza in un rapporto sempre in bilico fra quello del cliente e quello dell’amico. Ade è stata rimpatriata dall’Italia e il protagonista, il portiere notturno cui sono dedicate alcune delle pagine più straordinarie di Works, il romanzo precedente di Trevisan, ha mantenuto con lei buoni rapporti. Il viaggio in Nigeria sarebbe finalizzato a «mettere in piedi un traffico di parti di ricambio (usate) per auto (ancora più usate)», affare del quale, in realtà, nel libro non si parla, come se di fatto si perdesse nell’esperienza della voce narrante, che è al tempo stesso, come sempre in Trevisan, un’esperienza di immersione e estraneità.

Un Oybo illegittimo
Il protagonista appartiene, infatti e senza dubbio, alla categoria degli «oyibo» e tuttavia al tempo stesso non ne possiede i requisiti: vive infatti in un albergo situato nella periferia diffusa della megalopoli africana, dove non ci sono altri bianchi, dove l’energia elettrica va e viene, in una stanza per cui Ade è riuscita a spuntare un costo di pochi dollari al giorno. Vuole girare da solo dove non può, si scontra con i locali, che si sentono provocati dal suo atteggiamento, e insomma si ostina in una posizione liminare e bastarda, né dentro né fuori, sia dentro sia fuori, com’è tipico di tutta la scrittura di Trevisan, che a sua volta è tutt’uno con la vita.

La sua scrittura, proprio come la sua esistenza, è sempre ossessivamente partecipe del mondo che descrive, e tuttavia le è anche esterna, in quanto espressione di un vissuto di inadeguatezza e di diversità rispetto alle contingenze che danno – alla scrittura e alla vita – forma e consistenza. Essere come gli altri e allo stesso tempo del tutto diversi, è questa la postura esistenziale contraddittoria e satura di tensione che caratterizza l’intera opera di Trevisan: dal Thomas che compare nei suoi iniziali lavori, alla prima persona che racconta Works, fino al consapevolmente aporetico tentativo di decostruzione dell’io, che trova corpo nelle pagine più sperimentali di Black Tulips. Qui, infatti, questa condizione di doppia appartenenza al dentro e al fuori subisce una torsione radicale, grazie alla quale sperimenta una condizione di intrinseca impossibilità.
Quella dell’ «oyibo» è una condizione di permanente esposizione della propria differenza, di inevitabile esibizione della propria alterità, che impedisce qualsiasi forma di mascheramento e rende impossibile farsi invisibili. «Per difendermi, da me stesso e dal mondo – scrive Trevisan in apertura – una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un’arte – arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere –, è trattenere un frammento di essere per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti». Ma questa tecnica sembra qui entrare in crisi: la visibilità connotante della condizione di «oyibo» impedisce infatti qualsiasi tentativo di svanire dalla scena o di confondersi con essa. Essere «oyibo» comporta il trovarsi ad appartenere, senza averlo scelto, a un modo d’essere già costituito, a una determinata e rigida prospettiva rispetto alla realtà e al resto del mondo. E tuttavia, il continuo nonché disperato proposito di chi scrive è proprio quello di sottrarsi a qualsiasi identificazione, di spezzare consapevolmente quella prospettiva, apparentemente naturale e invece costruita, che ha senso solo dal punto di vista di chi la determina.

Liberarsi del soggetto
Il soggetto di questo romanzo, ovvero colui che al tempo stesso scrive il testo e ne viene scritto, cerca di liberarsi proprio del proprio essere un soggetto, intendendo limitare il suo sé a un corpo che ascolta – «come è vero che il nostro corpo parla per noi, allo stesso modo esso ascolta per noi» – scavando senza pietà nell’io per poterlo definitivamente seppellire. Il risultato di questo processo si riverbera nella sintassi rarefatta e tagliente di alcune pagine tra le più potenti e commoventi del testo: «se scrivessi tutto mai arriverei alla fine. Che arriva comunque, per me, per tutti. Fredda buia fossa. Non detto, magari vivissima intensa fiamma, in molti preferiscono. Non io (in negativo odiatissimo pronome sempre posso dire e per ultima volta e per sempre sia detto), non io preferirei lenzuolo, e in mare, anche senza lenzuolo. Ma mare non io rarissimamente. Montagna sempre. O altro luogo abbandonato (…) Dunque scomparire, disperso il tempo necessario ai selvatici, e i resti digeriti da bosco, foresta, friche, quel che sia, ma non uomini, umani no, umani stanco in vita, da morto lasciato in pace vorrei essere lasciato non essere. In pace».

Scrittura non lineare
Pur non essendo il testo più coerente di Trevisan, Black Tulips è di certo quello in cui svela, in modo a volte persino straziante, la condizione che sta all’origine di tutta la sua scrittura: quella dimensione di alterità perenne rispetto al dove si è. In questo senso, se da una parte Black Tulips è il lavoro nel quale Trevisan rende più estremo il tentativo di desoggettivare la scrittura – la non linearità, l’uso esteso e talvolta faticoso delle note, il ricorso alle sigle per indicare le diverse stringhe di frammenti, non sono elementi accidentali, legati magari a una qualche incompiutezza della scrittura, quanto piuttosto l’espressione della radicalità dell’operazione insieme letteraria ed esistenziale che l’opera incarna – dall’altra è anche il testo dove emerge, sparsa qua e là e perlopiù in pagine di lancinante bellezza, la possibilità che questo processo di desoggettivizzazione si compia non solo attraverso la cancellazione del sé, come la realtà delle cose ha voluto, ma anche nella tenerezza di una disperazione condivisa, come poteva darsi e non si è dato.