Vent’anni fa Shirin Ebadi: «Il regime sappia che il mondo ci guarda»
Iran La vincitrice del Nobel per la pace 2003 fu la prima iraniana e la prima musulmana a essere premiata. Le speranze di allora, incarnate da Khatami, sono sparite: il sistema è irriformabile
Iran La vincitrice del Nobel per la pace 2003 fu la prima iraniana e la prima musulmana a essere premiata. Le speranze di allora, incarnate da Khatami, sono sparite: il sistema è irriformabile
Nel 2003 a essere insignita del Nobel per la Pace era stata l’avvocata Shirin Ebadi per il suo impegno a favore delle donne. Era stata la prima iraniana e la prima donna musulmana a ricevere il premio.
Vent’anni dopo, il comitato ha scelto un’altra iraniana. Tra le due attiviste corre un filo: Narges Mohammadi ha lavorato nel Defenders of Human Rights Center di Teheran fondato da Ebadi nel 2001, fino alla sua chiusura nel 2009.
Commentando l’attribuzione del riconoscimento di Oslo a Mohammadi, Ebadi ha dichiarato: «Sono molto contenta che per la seconda volta il Nobel per la Pace sia arrivato in Iran. Narges Mohammadi è in carcere da anni per le sue attività in sostegno dei diritti umani. Spero che il regime si renda conto che tutto il mondo ha gli occhi puntati sulle donne iraniane. Mi auguro che cambi l’approccio nei confronti del popolo, in particolare nei confronti delle donne, mi auguro che il regime torni a ragionare in tempi brevi. Chi comanda in Iran deve capire che esistono i diritti umani e che tutto il mondo tiene sotto osservazione chi governa calpestando i diritti umani».
COSA C’È di diverso rispetto al 2003? Pur avendo scontato pene detentive, Ebadi poté uscire dall’Iran, ritirare il Nobel, recarsi negli Stati uniti e in Europa tenendo conferenze, per poi tornare a Teheran nonostante le tante difficoltà. Mohammadi è in carcere ed è assai probabile che ci resterà a lungo: difficilmente le sarà concesso di uscire di cella, tanto meno di varcare le frontiere.
Oggi la magistratura ha la mano sempre più pesante verso coloro che lottano per i diritti umani. Forse perché nella stanza dei bottoni siedono più pasdaran – militari con la sindrome di accerchiamento – che membri del clero sciita.
Se vent’anni fa qualcosa lasciava sperare in un cambiamento positivo, oggi vi è la consapevolezza che la Repubblica islamica non è riformabile: tutti coloro che hanno provato a innescare un miglioramento sono stati arrestati o sono stati costretti all’esilio. A titolo di esempio, i leader del movimento verde di opposizione del 2009 – al tempo del presidente Ahmadinejad – sono spariti dalla circolazione, mentre il filosofo Abdolkarim Soroush, soprannominato il Martin Luther King dei riformisti, è stato obbligato a lasciare l’Iran pur avendo il pedigree del rivoluzionario della prima ora (nel 1979 era stato membro del Consiglio rivoluzionario incaricato delle purghe e dell’islamizzazione delle università).
Come vent’anni fa, a comandare in Iran è sempre l’ayatollah Khamenei, il leader supremo: è lui ad avere l’ultima parola su tutto, dalle questioni interne alla politica estera al nucleare. Nel 2003 presidente era il riformatore Khatami, eletto nel maggio 1997 dalle donne e dai giovani che così avevano scongiurato che la poltrona di presidente andasse all’ultraconservatore Nateq-Nouri, che voleva imporre il chador dalla testa ai piedi – e non solo il velo che copre i capelli – alle bambine dai nove anni.
I DUE MANDATI presidenziali di Khatami sono passati alla storia come «la primavera di Teheran»: un periodo fiorente per la letteratura e il cinema grazie all’allora ministro alla cultura Ataollah Mohajerani ma, paradossalmente, segnato anche da decine di omicidi di intellettuali.
Dopo Khatami (1997-2005) e Ahmadinejad (2005-2013), presidente era diventato Hassan Rohani e la speranza di maggiori libertà si era riaccesa: nel 2015 i negoziatori iraniani sottoscrivevano finalmente a Vienna l’accordo nucleare con i 5+1, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite più la Germania. Doveva essere un momento di svolta, non solo sul nucleare, perché avrebbe comportato lo smantellamento delle sanzioni che avevano messo in ginocchio l’economia iraniana.
L’accordo avrebbe portato un riavvicinamento con l’Occidente e una riapertura dell’Iran. Peccato che nel 2018 il presidente statunitense Donald Trump abbia mandato a monte l’accordo, imponendo ulteriori sanzioni e non lasciando alla leadership di Teheran altra scelta se non tessere alleanze più strette con Russia e Cina.
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