Renato Vallanzasca foto di Andrea Pagliarulo/Tam Tam Fotografie/Archivio il manifesto
Renato Vallanzasca – foto di Andrea Pagliarulo/Tam Tam Fotografie/Archivio il manifesto
Italia

Vallanzasca alla fine della pena

Storie Il tribunale di Sorveglianza alla fine ha detto sì: l’ex boss della Comasina può uscire di prigione. Finirà di scontare i suoi 4 ergastoli e 295 anni in un centro Alzheimer della provincia di Padova
Pubblicato 2 mesi faEdizione del 14 settembre 2024

Tutto è cominciato e tutto è finito in un supermercato. Nel 1972 due colpi gli fruttarono 78 milioni di lire. Nel 2014 il bottino fu invece più modesto: un paio di mutande di Versace, delle cesoie da giardinaggio e un sacco di concime. La città era sempre la stessa, Milano, l’insegna pure: Esselunga. Anche le conseguenze sono state uguali: arrestato. In mezzo a questi due episodi Renato Vallanzasca, 74 anni compiuti a maggio, ha costruito la sua vita violenta da leggenda del crimine: omicidi, sequestri di persona, rapine, evasioni, rivolte carcerarie. Il totale fa quattro ergastoli e 295 anni di reclusione. Ne ha scontati 52 pieni, di anni, e ieri il tribunale di Sorveglianza di Milano ha detto sì alla richiesta dei suoi avvocati di farlo uscire di galera. Andrà in una Rsa in provincia di Padova perché ormai il feroce criminale non c’è più: «decadimento cognitivo», dicono i medici. «La condizione di demenza è accertata» e questo significa «incompatibilità conclamata» con il carcere. Il fu boss della Comasina non è più autosufficiente, non riesce più a esprimere ragionamenti di senso compiuto, vive giorni spenti e notti agitate. Non può neppure «percepire la finalità della reclusione e il senso dell pena», dicono i suoi avvocati Corrado Limentani e Paolo Muzzi. E in questo contesto la prigione «è un fattore peggiorativo delle condizioni cliniche». Di istanze per farlo uscire dall’istituto di Bollate ne sono state presentate diverse da qualche anno a questa parte, ma solo l’ultima ha incontrato prima il parere favorevole della procura generale e poi quello dei giudici. Quindi per Vallanzasca si apriranno le porte di un centro per malati di Alzheimer: mancano pochissimi giorni, giusto il tempo di mettere in contatto gli uffici lombardi con quelli veneti e finire di sistemare le pratiche.

«QUESTA STRUTTURA legata alla Chiesa lo ha visitato e lo ha ritenuto affetto da una patologia gravissima – ha detto in aula Limentani. Per rispetto dei principi di umanità, questa è l’unica alternativa possibile al carcere. Non c’è nessun impedimento perché accada: Vallanzasca non può essere considerato pericoloso, non ha nessun collegamento con la criminalità esterna. Penso che ci siano tutti gli strumenti per continuare la detenzione in un posto in cui malattia possa essere tenuta sotto controllo». Eppure, appena due anni fa, quando già la malattia incombeva e il declino era cominciato, lo stesso tribunale di Sorveglianza aveva detto no ad ogni ipotesi di differimento della pena. Colpa di un litigio che nei mesi precedenti Vallanzasca aveva avuto con una guardia carceraria, durante il controllo delle urine. «È ancora intemperante», la conclusione dei giudici. Neppure nel giugno del 2020 i tempi erano maturi: nessun permesso premio, nessuna possibilità di uscire. Il suo avvocato di allora, Davide Steccanella, rimise il mandato per protesta: «È la più grande delusione della mia carriera», dirà tempo dopo.

IL PROBLEMA, si capisce, non era chi fosse Vallanzasca allora, ma l’ingombro di un passato che ha riempito chilometri di cronache e ispirato un paio di non riuscitissime opere cinematografiche. Destò scalpore, a questo proposito, il film di Michele Placido del 2010, presentato fuori concorso al festival di Venezia, con alcuni che temevano l’arrivo sul Lido del famoso delinquente in persona, allora in semilibertà. La quantità di appelli contrari, lettere indignate e polemiche di stampo leghista (che si parlasse così tanto di un bandito del nord era considerato un problema) fu notevole. Non accadde nulla, ovviamente, e la possibilità di uscire gli venne peraltro tolta poco dopo perché l’ormai ex criminale approfittava delle ore fuori di prigione per incontrare una donna. Quando nel 2014 gli furono accordati altri permessi, il furto delle mutande all’Esselunga risultò fatale. «Se mi denunci succede un casino», disse Vallanzasca alla guardia privata del supermercato. In tribunale sostennero che si trattava di una minaccia, ma in realtà «il casino» era un riferimento a quello che gli sarebbe accaduto – la revoca di ogni bonus – non una vendetta promessa.

DEL RESTO è almeno dal 2000 che Vallanzasca ha cambiato vita, arrivando anche a collaborare con la giustizia attraverso alcune dichiarazioni (poi rivelatesi fondate) su un complotto ai danni del ciclista Marco Pantani al Giro d’Italia del 1999. Erano già lontanissimi i tempi del panico per le strade di Milano, così come era acqua passata anche il periodo delle scorribande carcerarie, dall’atroce omicidio del ventenne Massimo Loi fino alla vicenda che lo vide accostato al boss Raffaele Cutolo. Il pentito Giovanni Pandico, quello del caso Tortora, lo indicò come intimo del capo della nuova camorra organizzata, ma la sentenza alla fine fu di assoluzione per insufficienza di prove. Poi ci sono le evasioni, quelle tentate e quelle riuscite, ma sempre per troppo poco. Alla fine non è mai riuscito a fare tante strada e lo hanno riacciuffato ogni volta. Perché in fondo è così che vanno le cose: quelli come Vallanzasca li prendono sempre.

GLI ULTIMI DIECI anni sono stati un supplizio: niente permessi, niente benefici, niente di niente, mentre le sue condizioni di salute peggioravano. «Non ha mai chiesto perdono», scrissero i giudici. Non ha mai «posto in essere condotte comunque indicative di una sua effettiva e totale presa di distanza dal vissuto criminale». Gli operatori del carcere di Bollate, in realtà, nelle loro relazioni sostenevano il contrario: c’era stato in lui «un cambiamento profondo intellettuale ed emotivo». Ma non bastò perché, ancora parola dei giudici, «il percorso» di Vallanzasca «è stato connotato da involuzioni trasgressive» dovute alla sua «personalità». Si potrebbero porre domande sul metro di giudizio di una cosa del genere, ma la faccenda ormai ha perso ogni importanza, perché quella «personalità» è andata via e non tornerà. E quel che resta deve stare fuori di prigione.

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