Valentine Cuny Le-Callet, chiaroscuri nel braccio della morte
Graphic/Intervista L'esordiente fumettista francese racconta «Perpendicolare al sole», edito in Italia da Coconino Press
Graphic/Intervista L'esordiente fumettista francese racconta «Perpendicolare al sole», edito in Italia da Coconino Press
Il carcere è un’istituzione che andrebbe ripensata, forse anche a partire dalla produzione artistica che tra le sue mura vive e fiorisce. Tra i numerosi gli esempi di prison art, tra musica, letteratura e racconto visivo, il graphic novel dell’esordiente Valentine Cuny Le-Callet Perpendicolare al sole (Coconino Press) rappresenta sicuramente un caso speciale. Vincitrice del premio Arthemisia e di quello FNAC France per il fumetto, l’autrice francese raccoglie e racconta tra le sue pagine la corrispondenza con Renaldo McGirth, un detenuto nel braccio della morte di un carcere della Florida, tuttora in attesa di sentenza. In bilico tra romanzo epistolare e la storia di un’amicizia, reportage e making off di una narrazione per immagini, il racconto combina l’estrema potenza visiva con la complessità della materia e fino al 28 luglio se ne possono ammirare le tavole al MAR di Ravenna, nel contesto di Freedom, la mostra di Coconino Press. Abbiamo conversato con l’autrice al Passaggi Festival di Fano.
La pena capitale è un tema che ti appassiona da molti anni, ci sono però altre motivazioni che ti hanno spinto ad affrontare questo argomento?
Già da piccola ero interessata al tema della pena di morte e in generale della punizione, ma è stato all’indomani della serie di attentati a Parigi e con il ritorno del problema della pena di morte al centro del dibattito politico in Francia, che questo mio interesse si è trasformato in impegno. Mi sono iscritta all’ACAT (Action des chrétiens pour l’abolition de la Torture) e sono stata messa in contatto con Renaldo McGirth, che all’epoca aveva 28 anni e ne aveva già passati dieci nel braccio della morte.
Come è stato deciso che la vostra corrispondenza diventasse un libro?
Era molto importante per me non aver scelto una persona da un catalogo, la nostra relazione è nata per caso e nello stesso modo abbiamo scoperto che entrambi disegniamo. Renaldo mi ha chiesto di raccontare la sua storia attraverso dei poster e dei flyer, ma gli ho spiegato che in Francia non sarebbe servito a niente e che sarebbe stato meglio valutare la prospettiva narrativa. All’inizio ho scritto velocemente un racconto senza immagini. Il graphic novel nasce da lì, ma è un lavoro molto più lungo e articolato; le immagini che vengono dalla prigione sono pochissime e il racconto acquisisce un valore politico per la difficoltà di fare uscire ed entrare materiale visivo dalla prigione stessa.
Infatti uno dei temi centrali della vostra corrispondenza è la difficoltà di scambiarvi materiali, di far fluire la comunicazione tra esterno e interno del carcere e la ricaduta che questa difficoltà ha sul vostro stato d’animo. Come avete trovato un equilibrio?
Il progetto del fumetto è stata una scommessa, che poteva non andare a buon fine. Benché non sia illegale, quando il carcere si è accorto che stavamo facendo un lavoro sulla prigione ha iniziato a ostacolarci. Mentre il progetto prendeva forma, i miei disegni-che fino a quel momento erano arrivati con meno problemi- iniziavano a essere rifiutati e rinviati al mittente poiché considerati una minaccia per la sicurezza del carcere. Inoltre su quattrocento pagine, solo venti sono quelle disegnate da Renaldo: ha avuto difficoltà a rappresentare la propria infanzia e quindi mi ha chiesto di prendere il suo posto e trasformare in disegni i suoi ricordi, personali e dolorosi. Come illustratrice ho dovuto assumermi la responsabilità del suo racconto, mi sono sentita molto onorata.
Questo passaggio di consegne determina un cambio di stile nel racconto visivo, nel quale si alternano xilografie e disegni a matita.
Ci sono due tecniche principali nell’albo. Ho usato la grafite per le immagini di archivio e per le scene di azione, mentre le tavole realizzate dalle incisioni su legno e linoleum riportano i sogni, l’immaginazione o i ricordi di Renaldo. Entrambe sono tecniche in bianco e nero ma la matita dà la possibilità di avere sfumature di grigio mentre la stampa da incisione ha un risultato molto netto, il dettaglio viene fuori dalla precisione. Gli unici disegni colorati, a tempera, sono quelli di Renaldo, per il quale l’obiettivo era non perderli in mezzo ai miei, farli risaltare.
Nelle immagini si affacciano molti animali e molta vegetazione che risultano spiazzanti rispetto al concetto di reclusione: da dove vengono questi elementi?
La prigione si trova in un luogo dalla vegetazione lussureggiante, quasi una giungla, vicino a riserve e parchi naturali. I condannati a morte non hanno accesso alla vegetazione e dopo il 2008 Renaldo non ha visto dal vivo nessuna pianta, e i soli fiori che ha toccato sono quelli di carta da lui realizzati. Quando mi sono resa conto che gli mancava tanto la natura gli ho mandato molte immagini di vegetazione.
Il racconto si situa in un’ipotetica intersezione tra diversi generi e mostra il processo della sua stessa realizzazione. Avevate presente la sua complessità anche in fase di produzione?
Sì, è un fumetto che si racconta mentre si sta creando; di nuovo ci sono ragioni personali e istituzionali. È il mio primo libro e tratta un tema molto delicato: ogni tavola risponde a una quarantina di domande e questioni estetiche e etiche diverse. Dunque l’idea di rendere visibile queste domande mi è sembrato il miglior modo per riflettere. Se il lettore non fosse d’accordo sulle mie scelte artistiche, le motivazioni, le mie argomentazioni sono lì, visibili tra le pagine. Per quanto riguarda la parte istituzionale e le difficoltà alle quali accennavo prima, centinaia sono stati i colpi bassi, i rifiuti, e questo ha fatto sì che se volevamo scambiarci le immagini dovevamo farlo in base ai «no» della prigione. Per quanto fosse triste e frustrante, il rigido filtro imposto dal carcere ha generato l’immagine stessa. È stato strano constatare che proprio loro che odiano le immagini, abbiano contribuito alla loro potenza.
A lungo hai lavorato senza conoscere direttamente Renaldo; poi hai vinto una borsa di studio per gli Stati Uniti e vi siete incontrati. Come ha influito questo nella vostra corrispondenza?
L’idea stessa del libro è nata dopo l’incontro. Non ero mai stata in un carcere e in Florida i prigionieri nel braccio della morte hanno diritto a quelle che si chiamano visite di contatto. Non vi è vetro di separazione tra i visitatori e i detenuti e ci si può abbracciare. Quindi ci siamo conosciuti alla mensa, dove ho conosciuto anche altri familiari che incontravano i loro cari.
Un momento del racconto che poteva portare a creare facili stereotipi o banalizzazioni. Il vostro racconto invece riesce a essere privo di retorica.
In un certo senso la nostra relazione è banale, lui ha altri corrispondenti e esistono molte associazioni che organizzano questi scambi epistolari. In più negli Stati Uniti, dove c’è una specie di incarcerazione di massa, quasi tutte le famiglie hanno un parente o una persona cara in carcere. Ci sono studi che parlano di imprigionamento secondario-quello delle famiglie. Ho provato a non rendere angelici né diabolici i carcerati, ma ho cercato la loro umanità.
L’idea di non giudicare Renaldo attraversa tutto il tuo lavoro: non cerchi informazioni su di lui quando ti viene assegnato come corrispondente, non ti soffermi neanche sulla sua colpevolezza o innocenza, ti interessa la sua condizione e la vostra amicizia.
Non ho cercato informazioni su di lui perché lui non poteva farlo su di me. È stato Renaldo a dirmi che potevo fare ricerche, e poi sì, mi ha detto di essere innocente. Nel fumetto racconto il crimine attraverso la lettura del resoconto giudiziario. È la storia di un omicidio di una persona anziana morta durante un tentativo di rapina nella propria casa. Era importante che nel libro apparisse questa storia: Renaldo era stato già condannato per questo e c’era stata una vittima che meritava di essere ricordata.
I disegni sembrano emergere dal buio della cella, eppure il titolo del libro «Perpendicolare al sole», richiama la luce…
Renaldo parla della prigione come di un buco nero: anche quella del titolo è un’espressione sua, che in inglese non esiste. Lui la utilizza quando sta meglio, significa «sono in piedi». È un titolo che evoca opere d’arte, canzoni francesi e pagine scure della Bibbia, dove nell’Ecclesiaste appare l’uomo sotto il sole. È un’espressione ambivalente un po’ come il serpente in copertina.
Sei ancora in contatto con Renaldo?
Sì, con lui e la sua famiglia. Si avvicina una data molto importante: il prossimo 8 luglio è prevista una nuova sentenza che potrebbe convertire la sua condanna in ergastolo. Nell’attesa è stato trasferito in un altro carcere dal quale non può scrivere.
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