Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’epidemia di vaiolo delle scimmie attualmente in corso rappresenta una «Emergenza di salute pubblica di interesse internazionale». La decisione è stata comunicata ieri dal direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus e equivale a una dichiarazione di emergenza: quando viene proclamata, gli Stati membri dell’Oms sono tenuti a notificare quotidianamente i nuovi casi all’Oms, che da parte sua fornisce le raccomandazioni sulle politiche da adottare. Dal 2005, anno in cui la procedura fu formalizzata, la dichiarazione è stata utilizzata solo sei volte, l’ultima nel 2020 per il Covid-19.

QUELLO DEL VAIOLO delle scimmie non è un virus nuovo e dal 1970 è endemico in vari Stati dell’Africa centrale. A partire dal mese di maggio, nuovi focolai sono stati segnalati anche in altri Paesi e in particolare in Europa, per ragioni ancora poco chiare. Finora, i casi di vaiolo delle scimmie registrati in 72 Paesi sono stati oltre quindicimila con solo cinque decessi. Due casi su tre sono stati individuati in Europa, mentre le vittime erano tutte africane. I dati suggeriscono che la malattia in genere si risolva da sé, e che costituisca una minaccia solo nei paesi dove manca un’assistenza sanitaria adeguata. Anche Gianni Rezza, direttore della prevenzione al ministero della Salute, non drammatizza. «In Italia finora sono stati registrati 407 casi con tendenza alla stabilizzazione» spiega. «La situazione è sotto costante monitoraggio ma non si ritiene debba destare particolari allarmismi».

NEGLI ULTIMI TRE MESI, tuttavia, il contagio ha continuato ad accelerare e attualmente si censiscono oltre tremila nuovi casi ogni settimana. Il comitato di emergenza dell’Oms si era già riunito un mese fa per valutare la situazione, decidendo che i numeri non giustificavano la dichiarazione di emergenza. Anche nella riunione di ieri il comitato si è diviso e la decisione finale è stata presa dal direttore generale, già accusato di essere intervenuto in ritardo all’inizio della pandemia. «Abbiamo un’epidemia – ha spiegato – che si è diffusa rapidamente nel mondo, con nuove modalità di trasmissione, su cui sappiamo troppo poco e che soddisfa i criteri del Regolamento sanitario internazionale», cioè la necessità di una risposta coordinata tra i Paesi.

Le raccomandazioni dell’Oms insistono su un aumento della sorveglianza epidemiologica e del tracciamento dei contatti, campagne informative e sull’aumento della produzione del vaccino anti-vaiolo. Quello contro il vaiolo umano, infatti, sembra offrire una buona protezione anche contro il vaiolo delle scimmie. Tuttavia, le scorte rimaste dagli anni ‘70 sono ormai inutilizzabili e ritenute poco sicure. Secondo Tim Nguyen, capo dell’unità di emergenza per gli eventi ad alto impatto, nei magazzini dei Paesi ci sono cento milioni di dosi di vaccini di seconda generazione, mentre per il 2022 sono in arrivo 17 milioni di dosi (di cui uno già pronto) del vaccino Imvanex, più moderno e sicuro. Che i vaccini esistenti proteggano lo suggerisce il profilo demografico dei casi. Il 77% ha tra i 18 e i 44 anni, proprio la fascia di età che non ha potuto beneficiare della vaccinazione anti-vaiolosa sospesa dopo l’eradicazione del virus nel 1979.

NEL PROFILO demografico spicca soprattutto un altro dato: oltre il 98% dei casi censiti in Europa e Nordamerica è di sesso maschile e quasi tutti si dichiarano «uomini che fanno sesso con uomini». Questo però non basta a ritenere che la trasmissione omosessuale sia l’unico canale del contagio. In Nigeria, dove il vaiolo delle scimmie è endemico da molti anni e in cui si sono verificati tre dei cinque decessi del 2022, si registrano percentuali più elevate di donne e bambini nella popolazione contagiata. Difficile dunque stabilire quanto i casi ufficiali – che sono sempre un sottoinsieme dei contagi reali, come abbiamo imparato con il coronavirus – siano rappresentativi della popolazione infetta o di quella a rischio.

PER QUESTO TEDROS ha invitato i Paesi a non adottare misure che stigmatizzino la popolazione Lgbtq. «Innanzitutto si tratta di una violazione dei diritti umani» ha detto. «In secondo luogo, può compromettere la risposta e gli sforzi per fermare il contagio e mantenere sotto controllo l’epidemia». Le persone a rischio potrebbero infatti evitare di rivolgersi ai servizi sanitari e di seguire le norme di prevenzione se la malattia fosse associata al solo orientamento sessuale, soprattutto nei Paesi in cui l’omosessualità è discriminata. Inoltre, potrebbe far sottovalutare il rischio che il virus si diffonda in altre popolazioni vulnerabili. È un errore già fatto con l’Hiv negli anni ‘80. E anche con il Covid-19, che il presidente Trump chiamava «la peste cinese» e che il governatore Zaia ricondusse al presunto costume asiatico di «mangiare topi vivi».