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Utero in affitto, la parola alle donne

La gestazione per altri (Gpa) è un tema che in Italia non ha un’esistenza legale, ma abita i luoghi comuni della retorica. La Gpa, detta anche maternità surrogata o, in […]

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 5 novembre 2015

La gestazione per altri (Gpa) è un tema che in Italia non ha un’esistenza legale, ma abita i luoghi comuni della retorica. La Gpa, detta anche maternità surrogata o, in modo più popolare, utero in affitto, è una modalità di procreazione medicalmente assistita per cui una donna porta a compimento una gravidanza con l’esplicita intenzione di non tenere il figlio al fine di darlo a coppie/persone che ne hanno fatto richiesta.

Nel dibattito contemporaneo si parla del fatto che gli uomini, gay, abbiano monopolizzato il tema della maternità surrogata. In realtà è una certa politica, per lo più reazionaria e conservatrice, che ricorre a questa definizione, relegandola al solo mondo lgbt quando, invece la Gpa è una pratica a cui ricorrono soprattutto le coppie eterosessuali impossibilitate ad avere dei/delle figli.

Nel 2012 ArciLesbica, al termine del suo 6° congresso, ha definito la propria posizione sul tema, asserendo che la Gpa, se realizzata per solidarietà, è altruistica, se si dà per un compenso è commerciale. La Gpa può sussistere nel momento in cui risulta essere un atto volontario, per sottolineare questa volontarietà è necessaria la gratuità, anche economica, del gesto.

La libertà del gesto sta nella sua gratuità, e la libertà delle donne sta nella consapevolezza che questo sia un tema molto complesso e composto da diverse sfaccettature, cui spetta un’analisi che non si riduca a: «Sì Gpa!» o «No Gpa»!». Non riduciamo dunque la gestazione per altri ad un a scelta che viene adita sul corpo delle donne. Il corpo è un meccanismo di fluidi, umori, ragioni, materia: il corpo pensa. Il corpo di una donna che intraprende il percorso della gestazione per altri non porta materialisticamente solo un embrione dentro di sé, non riduce la sua esistenza al desiderio altrui; il corpo di una donna misura sé stesso nella relazione con i nove mesi di gestazione. E questo tempo non può essere deciso a priori da un contratto vincolante e vincolato.

In nome di quel determinismo che legittima la libertà femminile, è necessario consentire che una donna al termine di una gravidanza in surrogacy, scelga di assumere il ruolo di genitore genetico e quindi di affidare chi nascerà ad altri o di poter recedere dalla volontà iniziale e tenere quel figlio o quella figlia per sé.

In Italia il riduzionismo strumentale cui oggi assistiamo è un non senso, voluto per disorientare e manipolare la coscienza civile. La Gpa è il richiamo costante di chi vuole negare il riconoscimento alle coppie dello stesso sesso di un/una fglio/a. È l’uso improprio di una determinata aggressione culturale e politica, quella che decide di insegnarci il buonismo della ragione, in funzione di un pensiero eteronormato. Dobbiamo saperlo dire: ridurre la questione a mera oggettività, crea una gerarchia genetica tra i soggetti coinvolti e nega la differenza tra il ruolo femminile e maschile nella procreazione. Riconoscere il primato femminile rispetto al generare è un dato che appartiene all’ordine delle cose ed è l’unica differenza che non può non essere riconosciuta.

L’innovazione oggi, per far uscire il dibattito sulla Gpa dai luoghi comuni della retorica in cui ristagna, deve essere quella in cui donne e uomini riconoscono l’unicità dell’azione procreativa, le ricadute esistenziali e fondative sui soggetti e sui corpi coinvolti senza pretendere di confinare l’argomento alle leggi del mercato.

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