Un cittadino nigeriano è stato ucciso a Civitanova Marche, vittima di una brutalità che ha come sua unica spiegazione l’essere il sintomo di un processo di de-civilizzazione sempre più invasivo e dissolvente.

Di questo processo il sintomo più inquietante non è la brutalità (la furia omicida di un essere disumanizzato, abitato dalla morte), ma l’indifferenza delle tante persone che hanno assistito alla scena senza avere fatto nulla per impedire la violenza.

Fobos e eleos, terrore di fronte alla hubris che ferisce a morte la possibilità della convivenza all’interno della Polis e compassione di fronte alla perdita dell’altro che ricade su di noi, i due sentimenti tragici che fondano la civiltà, stanno perdendo il loro posto nel mondo.

Viviamo in una parte consistente della nostre relazioni sociali in un mondo post-tragico.

Privi del dispositivo trasformativo costituito dallo sconvolgimento del nostro psichismo di fronte alle catastrofi dei nostri sentimenti e affetti (che ci obbligano a uscire dal torpore) e dal lutto (che mettendo in moto il sentimento più umano che esista, la mancanza dell’altro desiderato, rimette in gioco in modo insieme sofferente e impetuoso, passionale il desiderio).

Il desiderio ama il lutto perché è la perdita dell’oggetto amato che lo fa nascere e gli dà senso. Non si può amare senza incontrare l’amata/o nello spazio dell’intesa in cui le differenze si inseguono, si accordano e si disaccordano, si perdono e si ritrovano, restando vive e desideranti l’una l’altra.

Il mondo post-tragico è un mondo pazzo minato dalla tendenza all’autodistruzione. È pazzo nel senso dell’insensatezza come regola perversa dell’esistenza che è l’opposto della frattura dolorosa della soggettività, la follia come espressione di un disordine personale con cui il soggetto ferito a morte, ma purtuttavia vivo, resiste a un ordine privo di senso.

L’ordine insensato è l’esistenza meccanica, la relazione indifferente con la vita. Fa morire la capacità di lasciarsi coinvolgere da ciò che viviamo e allontana l’esperienza umana dal farsi sconvolgere di fronte a ciò che la disumanizza (mandando all’aria tutte le assuefazioni rassicuranti con cui il far buon viso a cattivo gioco la imbriglia).

L’indifferenza, nemico mortale della convivenza civile, è il disinteresse per le differenze.

Senza le differenze non c’è desiderio e non ci sono essere umani, se non come involucri biologici governati da forze distruttive e autodistruttive.

La civiltà è fondata sulle relazioni. Più le relazioni sono libere e paritarie più la trama della civiltà è complessa, ricca e resistente. Relazioni e differenze hanno un destino comune. Le relazioni non esistono fuori dalle differenze e le differenze svaniscono se non si relazionano tra di loro.

La «società civile» è stata da sempre, ben prima che avesse avuto una forma riconoscibile e definibile (quando esisteva in forme primitive, elementari), il luogo dove le differenze di ogni tipo crescono e dialogano.

Compito reale della politica è favorire lo sviluppo della società civile come luogo di scambio affettivo, culturale e economico, svolgere il lavoro necessario di mediazione tra le sue contraddizioni, regolare gli eccessi di autoreferenzialità e sanzionare le prevaricazioni.

Per creare una società psichicamente sana e ragionevole in grado di promuovere un rapporto affidabile e soddisfacente dell’essere umano con la realtà in cui vive.

L’indifferenza uccide la società civile e la politica.

Il primo dovere delle forze politiche democratiche è quello di fare uscire la società dall’indifferenza. La cosa prioritaria è la restituzione di dignità, qualità e stabilità al lavoro.

La battaglia di fondo è sul legame di co-costituzione tra lavoro e «tempo libero»: il tempo della convivialità e dell’esperienza culturale, il tempo dell’esperienza erotica in cui si afferma la differenza femminile, la più grande speranza della civiltà a condizione che non la snaturiamo.