La scorsa settimana un tribunale federale ha giudicato inammissibile una causa per discriminazione elettorale su base razziale. Il ricorso in questione denunciava una nuova mappa elettorale promulgata dal governo repubblicano dell’Arkansas che nel 2020 aveva ridisegnato i contorni dei collegi uninominali dello stato in modo da “diluire” la popolazione afro americana. I neri (15,6% del totale) sono un segmento compattamente democratico e la nuova mappa dei distretti elettorali assicurava che difficilmente avrebbero potuto ottenere in uno di essi la maggioranza necessaria per eleggere un proprio rappresentante.

La collaudata strategia di pilotare la demografica dei collegi è detta gerrymandering ed assieme alla soppressione del voto avversario, è stata praticata soprattutto negli stati ex confederati, intenti, dopo la guerra civile, a mantenere l’egemonia dell’elettorato bianco. Allo stesso scopo gli stati ex schiavisti hanno storicamente praticato l’inibizione del voto afroamericano tramite l’intimidazione, gabelle, esami di alfabetismo ed altri soprusi nei confronti degli schiavi liberati e dei loro discendenti.

LA CORREZIONE costituzionale di questi meccanismi aberranti fu, non a caso, la principale rivendicazione del movimento per i diritti civili negli anni ’60, culminati nella promulgazione del Voting Righs Act firmato nel 1965 da Lyndon Johnson alla presenza di Martin Luther King. Quella legge vietava gli espedienti e gli stratagemmi volti a pilotare il voto con maggioranze pilotate ed acrobazie amministrative, ed imponeva il commissariamento degli stati del sud, i quali, per manifesta malafede, perdevano il diritto di formulare regole elettorali in autonomia come previsto dal federalismo americano.

Il gerrymandering è tuttavia continuato ad essere praticato da entrambi i partiti per sfruttare a proprio vantaggio il vigente sistema maggioritario secco. La tattica è particolarmente utile con il collegio elettorale che governa l’elezione del presidente. In soldoni funziona così: in un ipotetico stato con venti distretti elettorali, ogni distretto sceglie un grande elettore, che sempre maggioritariamente determinerà l’indirizzo politico dello stato stesso. Tracciare i confini giurisdizionali di quei collegi uninominali in modo da assicurarsi che undici di essi contengano una maggioranza favorevole al proprio partito, risulterà nell’elezione di 11 grandi elettori. A questo punto i nove distretti perdenti – se pure dovessero contenere un maggior numero complessivo di elettori – non avranno più voce in capitolo e tutti e venti i distretti conteranno per il vincitore.

IL SISTEMA rende possibile l’elezione di presidenti anche se perdono il plebiscito nazionale come è successo quattro volte nella storia, le ultime due con Geroge Bush nel 2000 e Donald Trump nel 2016. Quell’anno Trump aveva conquistato i delegati necessari alla vittoria pur ottenendo, su scala nazionale, 3 milioni di preferenze in meno di Hillary Clinton, grazie ad ottantamila voti spalmati in distretti decisivi di tre stati minori. Ed anche il vincitore delle presidenziali del prossimo novembre verrà assai probabilmente determinato dai risultati nella solita manciata di battleground states, dove margini potenzialmente millimetrici potrebbero assegnare i delegati necessari alla Casa bianca.

Da qui l’importanza del bilanciamento delle mappe elettorali come quella che in Arkansas è stata chiamata in causa come previsto dal Voting Rights Act. La sentenza negativa, resa da un tribunale di giudici nominati da Trump, è invece l’ultima istanza di un coordinato attacco revisionista della destra alle riforme. Cosciente di non disporre dei numeri necessari per vittorie popolari, il movimento conservatore mira a smantellare l’impianto posto in essere sessant’anni fa per correggere ingiustizie secolari. La prima avvisaglia si è avuta nel 2013 quando la Corte suprema invalidò, non a caso, alcune componenti fondamentali proprio del Voting Rights Act. Sollevato il divieto di modificare regole elettorali senza vaglio federale, molti stati ex confederati ripresero immediatamente l’antico copione, imponendo ostacoli procedurali, volti ad inibire l’afflusso di votanti in distretti neri ed ispanici, tradizionalmente favorevoli ai democratici.

L’AVVENTO del trumpismo ha accelerato il processo innanzitutto con il consolidamento del controllo sulla Corte suprema. La maggioranza di togati ultraconservatori sottoscrive “l’originalismo” che promuove la lettura letterale della costituzione del 1789. La dottrina è stata addotta l’anno scorso nell’abrogazione del diritto all’aborto e negli attacchi agli altri diritti civili nel mirino dei conservatori, compreso il Voting Rights Act. Nella motivazione della sentenza in Arkansas, i giudici conservatori hanno invalidato le protezioni centrali della legge. Casi simili sono attualmente in corso in diversi stati dove potrebbero influire sull’elezione presidenziale e al composizione del prossimo congresso. Se anche negli inevitabili appelli alla Corte suprema dovesse prevalere questa linea, rappresenterebbe un potenziale cruciale assist a Trump e un’accelerazione della crisi costituzionale che il paese affronta in un anno elettorale.