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Uno spettro canoro si aggira per la rete

Uno spettro canoro si aggira per la reteGrimes – Foto Ap

Tracce fantasma Le clonazioni vocali figlie dall’AI riportano in auge una necrofilia discografica dalle radici più profonde. Registrazione postuma e ologrammi, il consumo come produzione, «deadness» e copyright

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 agosto 2023

Un breve video del 1932, intitolato Voice Grafting – The Latest Miracle of ‘Sound’ Science, esalta il pionieristico processo tecnologico grazie al quale i tecnici londinesi della His Master’s Voice sono riusciti a isolare la voce di Enrico Caruso da un vecchio disco del 1905. Undici anni dopo la sua morte il tenore napoletano si ritrova virtualmente in sala d’incisione, accompagnato da un’orchestra in carne e ossa sull’aria Vesti la giubba dai Pagliacci di Leoncavallo. «Abbiamo tentato per anni di rivitalizzare la voce di Caruso, per tirarne fuori la bellezza e il fervore drammatico originario», spiega il commentatore: «Finalmente ci siamo riusciti».

Brian May e l’ologramma di Freddy Mercury

NOVANT’ANNI dopo è l’intelligenza artificiale a resuscitare le voci degli interpreti scomparsi. Se i Beatles promettono un ultimo ricongiungimento con lo spirito di Lennon, già evocato a metà anni Novanta in Free As A Bird e Real Love, gli utenti di YouTube plasmano una realtà parallela in cui Kurt Cobain canta Vanessa Carlton e Freddie Mercury reinterpreta My Heart Will Go On e Con te partirò. È il lato creepy dei programmi di conversione vocale basati sull’intelligenza artificiale, come Vocaloid e SoftVC VITS, nel mirino delle major almeno dallo scorso aprile, quando la Universal ha imposto alle piattaforme streaming di rimuovere Heart On My Sleeve, brano originale di tale Ghostwriter-977 (nomen omen) affidato alle voci clonate di Drake e The Weeknd. In attesa che l’AI possa realmente competere nella composizione musicale, è la sua natura replicante a suscitare questioni etico-legali e a scatenare il panico morale.
Eppure l’esempio di Caruso e del suo featuring post mortem dovrebbe farci pensare a una questione ben più datata rispetto all’avvento dell’intelligenza artificiale. Un certo gusto necrofilo, a ben pensarci, ha caratterizzato l’industria discografica sin dalla sua genesi, se è vero che il celebre cagnetto davanti al fonografo era lì per ascoltare la voce – isolata dal corpo – del defunto padrone. Come ha scritto Michel Chion, «chi ha assistito alla nascita di queste tecnologie era ben cosciente della loro qualità funeraria»; c’è da chiedersi se nell’acusmatico e schizofonico ventunesimo secolo ci sia altrettanta consapevolezza di vivere in un mondo di morti che continuano a parlare (e cantare).
Gli stessi duetti postumi, da prove tecniche di trasmissione, sono diventati un fortunato filone della popular music almeno dal momento in cui Nat King Cole era stato riesumato per cantare con sua figlia Natalie (Unforgettable, 1991) dando il via a un ciclo di resurrezioni sempre più spettrali: Lennon, Mercury, Marley, Sinatra, Notorious B.I.G. e compagnia cantante. Nel 2004 Anita Cochran avrebbe pubblicato una Cheatin’ Song composta da frammenti registrati da Conway Twitty, già da tempo passato a miglior vita. Per non parlare poi degli ologrammi: Mercury – ancora lui – stringe la mano a Brian May sul palco di Glasgow, mentre il software Aiode resuscita Ofra Haza e Zohar Argov affinché cantino per il 75° Giorno dell’Indipendenza di Israele.
Pratiche e tecnologie che trovano un comune denominatore in quell’approccio ricombinatorio proprio della registrazione sonora e intrinsecamente votato all’intermondanità: riarrangiare una traccia incisa da un interprete non più in vita non è tanto più problematico di una comune registrazione in multitrack, di per sé asimmetrica e discontinua a livello cronologico e spaziale. Né è diversa la volontà di riassemblare ciò che è stato sottratto alla sincronizzazione, a partire da quella tra corpo e voce e dall’idea stessa di voce come impronta digitale.

CERTO, la novità è che la conversione vocale dell’AI ci mette di fronte a performance non più ricollegabili ad un corpo umano, sia esso in vita o meno. E soprattutto è nuova l’estrema accessibilità del vituperato mezzo tecnologico, che tuttavia è né più né meno etico dei suoi utilizzatori. Qualche complessità in più la pone la questione dell’agency, intesa come una capacità di influire sull’ambiente circostante che va ben oltre l’idea di volontà artistica – tanto dei morti quanto dei vivi – e che già prima dell’intelligenza artificiale era stata ascritta anche ai materiali, agli spazi e alla tecnologia.
Tra tante riesumazioni è forse il caso di disseppellire anche il concetto di deadness, tratteggiato già nel 2010 da Jason Stanyek e Benjamin Piekut come una sorta di «arrangiamento condizionale» che contribuisce a costituire bio e necro-mondi destinati a compenetrarsi a vicenda. In sostanza, la deadness è la rimodulazione di questo arrangiamento nel quadro di un’opera perennemente reversibile e ricombinatoria come quella discografica. La quale non si accontenta più dell’originaria idea di preservare e «imbalsamare» le voci dei futuri defunti, perseguendo sempre più complesse forme di riarticolazione della corpauralità che la abita.

Si tratta di concetti e approcci che ben si sposano con le teorie del postumano, dalle quali il rapporto tra corpo e tecnologia esce ricalibrato, una volta abrogata ogni differenza essenziale tra esistenza corporea e simulazione informatica, organismi biologici e cibernetici, teleologia robotica e obiettivi umani.
Ma allo stesso tempo, le letture in chiave marxista ci mettono in guardia su un’idea di necro-marketing e su quella stessa rimodulazione tra bio e necro-mondi di stampo tardocapitalista. Intanto, in attesa di capirci qualcosa, l’industria discografica predica male e razzola bene, pensando già a come monetizzare tra i nodi di una rete in cui si incontrano tecnologia ed economia, aspetti etici e legali, agency e copyright.

NON È UN CASO, forse, che sia stata proprio Grimes – ex partner di Elon Musk – la prima a cogliere opportunità redditizie dal mercato della clonazione vocale, sbandierando un’etica a mezz’asta: «Non voglio che la mia voce sia utilizzata per un inno nazista, a meno che non sia per scherzo».

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Le nuove tracce fantasma, come quelle che le hanno precedute, sono in definitiva un ottimo mezzo per far rivivere le opere del passato presso il pubblico contemporaneo: non è solo la voce a risorgere, ma anche il suo valore commerciale. È forse su questo che bisognerebbe iniziare a interrogarsi seriamente, declinando il discorso sull’AI in musica all’interno del più ampio dibattito teorico e politico sul tema delle nuove rivoluzioni tecnologiche e della «fine del lavoro». O meglio (o peggio) della sua digitalizzazione, che anche nel settore musicale si traduce in un assorbimento del consumo all’interno della produzione (si veda a tal proposito il libro di Antonio Casilli Schiavi del clic, edito da Feltrinelli), con le piattaforme abili a tradurre in lavoro non pagato i gesti e le scelte dei propri utenti: anche quando i prosumers caricano Kurt Cobain che canta A Thousand Miles di Vanessa Carlton, la «voce del padrone» – silenziosa ma vivissima – ringrazia sentitamente.
Il rischio, insomma, è sempre quello di indicare la pagliuzza senza accorgersi della trave nell’orecchio. Ma qualcuno ha già profetizzato che «nei prossimi due anni ci sarà una battaglia che tutti dovremo combattere: difendere il nostro capitale umano contro l’intelligenza artificiale».
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