Nel proclamare la morte dell’autore, Roland Barthes non si era preoccupato granché di appurarne il lascito testamentario. Sicché, cinquant’anni dopo è la stessa leva cantautorale del ‘68 ad avviare le pratiche della propria successione: un’unica firma sancisce della canzone il valore culturale e quello commerciale. Nel frattempo l’opera si è smaterializzata e l’autenticità è messa all’asta; la authorship, già abbondantemente erosa, diventa authorshop. L’ultimo affare, meno di quarantotto ore fa, riporta in prima pagina la buonanima di David Bowie, il cui intero catalogo è ora proprietà di Warner Chappell, alla modica cifra di 250 milioni di dollari. Dalla sua fattoria nel New Jersey Springsteen applaude sventolando l’assegno da mezzo miliardo firmato Sony, degna replica all’epocale accordo tra Dylan e Universal (leggasi Vivendi). Scorrendo i registri di vendita delle royalties altri nomi celebri saltano all’occhio: Paul Simon, David Crosby, Neil Young, Tina Turner. Gli ex Beach Boys, oltre alla musica, appaltano anche l’immagine all’Iconic Artist Group di Olivier Chastan, che profetizza un loro ritorno sotto forma di ologramma. Altro che Good Vibrations.

PER IL BUSINESS musicale, insomma, quello dei diritti d’autore è il trend del momento. Volendo essere più precisi, oggetto di compravendita sono i diritti patrimoniali relativi allo sfruttamento economico dell’opera; ancor più nel dettaglio, la fetta che resta sul piatto del songwriter dopo le spartizioni con co-autori, interpreti e proprietari della registrazione (di solito, le case discografiche). Cedendo la sua quota, l’autore rinuncia alle royalties derivanti da vendite, esecuzioni dal vivo, cover, diffusioni, riproduzioni, campionamenti e soprattutto streaming. Ma in mancanza di accordi espliciti, rinuncia anche a decidere come e dove riprodurre l’opera. L’indotto dell’advertising ringrazia, e gli acquirenti pure: la canzone, dicono, è un investimento sicuro, esente dalla ciclicità del mercato. Una hit è per sempre.

NON SONO soltanto le major tradizionali a lanciarsi nella caccia alle royalties. Dopo aver aperto le porte a nuovi editori come Primary Wave, negli ultimi tre anni l’industria musicale ha visto l’ascesa di fondi d’investimento privati quali Hipgnosis Songs, creato nel 2018 da Merck Mercuriadis — ex manager di Guns ‘n’ Roses ed Elton John — e Nile Rodgers, già chitarrista degli Chic. Dopo aver consegnato a Wall Street brani di Justin Bieber, Beyoncé e Rihanna, il catalogo ha inglobato Mark Ronson, Blondie, Shakira e lo stesso Rodgers. A gennaio l’ultimo colpaccio: 150 milioni di dollari per metà del cartellino di Neil Young, da sempre contrario all’uso pubblicitario e politico delle sue canzoni. «Non ci sarà mai una Burger of Gold», giura Mercuriadis nascondendo le dita.
Proprio come accade nel mercato immobiliare, il ribasso dei tassi di interesse e di inflazione, dopati dalle politiche emergenziali, rende più propizi gli investimenti. A scuotere gli animi non più il sacro fuoco del rock, ma i rendimenti assicurati dai suoi diritti patrimoniali, superiori a quelli di molte altre obbligazioni. Ciò che appariva come una nuova febbre dell’oro, durante la pandemia ha creato una vera e propria bolla speculativa. Con le vendite dei supporti già a picco da anni, lo streaming diventa la morbilità pregressa resa fatale dal covid, cui va imputato il recente collasso della musica dal vivo, principale fonte di ricavo per i musicisti.

A FINE ANNO Spotify veleggia verso i 400 milioni di utenti e i 177 milioni di abbonati, per una crescita annua del 19% su entrambi i parametri: convertito in euro, fa all’incirca 2,5 miliardi. Crescono anche le valutazioni delle canzoni, calcolabili tramite semplici algoritmi; gli stessi che abbattono con un click i costi di gestione per le edizioni e i compensi. Eppure Spotify continua a versare agli artisti quei miseri 0,0038 dollari per ascolto. «Lo streaming ha rubato i miei soldi», ha scritto David Crosby benedicendo la vendita del suo catalogo a IAG: «Ho una famiglia e un mutuo, è la mia unica opzione». Come per ogni bolla finanziaria, c’è già chi pronostica la fine entro un paio d’anni. Si diceva così anche del covid, però.
Nel frattempo gli autori prestano un orecchio alla musica e l’altro alle news di finanza. Biden promette di raddoppiare le tasse sui redditi più alti? I songwriter rispondono liberandosi delle royalties — che sono appunto una voce di reddito — incassando al volo e pagando un dazio ben minore per le plusvalenze. Ovviamente — ulteriore iniquità — a spuntare cifre così alte sono solo i grandi nomi, artisti giunti a un’età alla quale è lecito assicurarsi una vecchiaia serena. E magari una successione tranquilla come quella di Bowie, senza le lotte fratricide degli eredi di Prince, James Brown e altre star poco previdenti. Perché non è mica sempre vero che le canzoni uniscono gli animi.