Cultura

Un’indagine poliziesca dai toni yiddish che non si traduce mai in cliché

Un’indagine poliziesca dai toni yiddish che non si traduce mai in clichéUn'immagine dalla serie tv "La famiglia dei diamanti|, ambientata nella comunità ortodossa di Anversa

Noir «Il rabbino e il commissario - Non uccidere», di Michel Bergmann, edito da Emons. Nel romanzo si racconta di un mondo ebraico vivo e vibrante, pieno di personaggi che chiunque abbia frequentato una comunità ebraica (anche non liberal) riconosce: una segretaria impertinente, una mamma yiddish come nella migliore delle tradizioni («possessiva, despota, saccente, piagnucolona, ansiosa, impaziente» e comunque profondamente amata), consiglieri di comunità noiosi e presidenti pedanti e ciononostante immeritatamente autorevoli

Pubblicato circa un anno faEdizione del 22 luglio 2023

Ad Henry piacciono le belle donne, leggere i gialli, suonare il pianoforte e, occasionalmente, giocare alle corse al Gran Premio dell’Assia per cavalli da trotto anziani. E vincere. Per la verità gli piace anche nuotare e mentre lo fa «rivoltare i pensieri, soppesarli, formulare congetture, elaborare ipotesi e teorie, scartarle oppure applicarle, analizzare le cose da ogni prospettiva»: è il klern della tradizione ebraica perché, anche se va in giro con la smart rossa e tutto il resto, Henry è un rabbino, un rabbino vero di una congregazione liberal di Francoforte.

ED È VERO E CREDIBILE quanto riesce a renderlo l’abile penna di Michel Bergmann in Il rabbino e il commissario – Non uccidere (Emons edizioni, pp. 224, euro 15), annunciato primo volume di una serie che si annuncia di sicuro interesse. L’impianto è quello del poliziesco e quella che affronta il rabbino Henry Silberbaum è, ovviamente, un’indagine su un omicidio. Al suo fianco – proprio malgrado – il commissario, involontario ariano doc, Robert Merking (che ha anche una figlia simpatica, ma questo non c’entra).

Il fatto è che il rabbino, dando prova della tradizionale dura cervice ebraica, vuole assolutamente far luce sulla dolorosa dipartita della affabile signora Axlerath, anziana e piuttosto abbiente, solo apparentemente morta di morte naturale. Ma ci sono dei particolari che non tornano: un piatto del servizio sbagliato accanto al letto, le confidenze della donna sulla relazione extraconiugale del marito con una shikse, in yiddish donna non ebrea, una generosa donazione per realizzare un biblioteca che rischia di trasformarsi in fumo se riesce il piano dell’astuto assassino o assassina o assassini (bisogna arrivare alle ultime pagine perché il sospetto si tramuti in certezza con un colpo d scena finale).

Ma non è solo la trama ben costruita, i personaggi credibili, i particolari della tradizione ebraica inseriti con disinvolta maestria nella trama del racconto a fare de Il rabbino e il commissario un bel libro e un buon giallo. È che, fatto raro, nel romanzo si racconta di un mondo ebraico vivo e vibrante, pieno di personaggi che chiunque abbia frequentato una comunità ebraica (anche non liberal) riconosce: una segretaria impertinente, una mamma yiddish come nella migliore delle tradizioni («possessiva, despota, saccente, piagnucolona, ansiosa, impaziente» e comunque profondamente amata), consiglieri di comunità noiosi e presidenti pedanti e ciononostante immeritatamente autorevoli.

E POI AVVOCATI con gli scrupoli e avvocati senza scrupoli, librai vecchi, sapienti e spiritosi, capaci di interpretare i sogni (di questi ultimi le comunità italiane sono più carenti), giocatori di scacchi, distanti fidanzate oltreoceano con cui scambiare esilaranti conversazioni che scavalcano i fusi orari. C’è sempre un flirt lieve con lo stereotipo che non si traduce mai in cliché. Il fatto che tutto avvenga a Francoforte non sposta la questione: sono ebrei vivi, che ebraicamente (cioè umanamente) agiscono, pregano, campano lontano dai riflettori delle serie tv sugli ultraortodossi, distanti dalle pagine dell’Europa orientale ebraica annientata, diversi dagli estranei mondi dell’ebraismo americano di qualsiasi epoca.

Sono «ebrei vicini di casa», sono quelli della sinagoga o del negozio – casher – accanto. Sono una collettività che, se anche non può ignorare l’ombra della Shoah, la stessa signora Axlerath è una sopravvissuta ai campi di sterminio – e questo non è del tutto estraneo alle modalità della sua morte -, se ne porta dietro la memoria con rispettosa ironia: «Una metafora della hybris e dell’uomo che vuole farsi Dio e perciò viene punito», osserva il rabbino Harry Silberbaum con il suo amico libraio a proposito del Golem (e per farlo cita Gustav Meyrink e Leo Perutz). «Esatto. Il tipico schema del castigo. Ad Auschwitz un Golem avrebbe fatto comodo». «Giusta osservazione», approva il rabbino.

L’IRONIA È UNA LENTE che accompagna Henry nella ricerca del colpevole – trascinandosi dietro il recalcitrante commissario, uno sguardo sul mondo, ebraico o meno. Pagina 140, studio di un cardiologo di fama: «È un ambiente sofisticato, cosa che non sorprende Henry. Dettagli di pregio, pezzi di design, stampe di valore alle pareti. Quello è il regno di un uomo che ha stile, poco ma sicuro. Perfino le assistenti sembrano uscite da una stampante 3D: tutte giovani, bionde, con la coda di cavallo, il camice rosa, le calze bianche e le ballerine. L’effetto d’insieme rasenta in maniera inquietante il feticismo. Di certo lì nessuno si occupa di tutelare le pari opportunità». In conclusione, la signora Axlerath può riposare in pace, l’amicizia e la tenacia del suo rabbino svela il mistero del suo assassinio.

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