«Una soluzione confederale per la Catalogna»
Intervista IntervistaGerardo Pisarello, vicesindaco di Barcellona: «Indipendenza sì, ma in un progetto comune con gli altri popoli spagnoli»
Intervista IntervistaGerardo Pisarello, vicesindaco di Barcellona: «Indipendenza sì, ma in un progetto comune con gli altri popoli spagnoli»
Il braccio destro di Ada Colau è un argentino dal nome italiano, 47 anni e figlio di una maestra rurale e di un avvocato attivista, assassinato dalla dittatura del generale Videla. Lo sequestrarono quando lui aveva sei anni mentre gli stava leggendo una storia prima di andare a letto. La sua infanzia fu difficile. Arrivò a Madrid per fare un dottorato nel 1996, e vive a Barcellona dal 2001, quando iniziò a insegnare diritto costituzionale all’Università di Barcellona. Assieme a Colau, è uno dei fondatori del nuovo partito Catalunya en comú, alleato di Podemos.
Gerardo Pisarello, come vicesindaco e come costituzionalista, che pensa della crisi catalana?
Siamo di fronte alla crisi di stato più importante di questi 40 ultimi anni dalla Transizione. È una crisi territoriale, ma si sovrappone ad altre crisi. Il Pp è il partito con più casi di corruzione d’Europa; c’è un’emergenza sociale che continua; malgrado il miglioramento degli indici economici, la precarietà nel mondo del lavoro è elevatissima; c’è ancora moltissima speculazione immobiliare: i deficit democratici sono chiarissimi. Davanti a questo scenario ci sono due strade. O una restaurazione conservatrice; oppure, cosa che vorremmo, cercare di superare questo contesto in chiave democratica, sociale, repubblicana e plurinazionale.
È a favore dell’indipendenza catalana?
L’indipendenza è un’opzione legittima, soprattutto dopo tutti questi anni di blocco, la capisco perfettamente. Ma io credo che sia possibile costruire un progetto comune assieme agli altri popoli spagnoli. Dobbiamo esplorare la strada di una confederazione, che riconosca la singolarità catalana ma che possa articolare una relazione con gli altri popoli spagnoli. Con l’irruzione di Unidos Podemos, che non esisteva durante la Transizione, questa possibilità esiste. La conditio sine qua non è la cacciata del Pp, e qui in Catalogna una riconfigurazione delle relazioni di potere dove il Pdcat (partito di destra nazionalista di Puigdemont, ndr) perda la direzione politica dell’indipendentismo, a favore delle forze progressiste.
Ma tecnicamente come si può costruire questo progetto?
Non è facile, siamo in un momento di eccezionalità in cui è difficile pensare a tecniche ordinarie di diritto. Bisognerebbe andare verso scenari costituenti. Anche perché il quadro normativo costituzionale è in crisi profonda. Il Pp sta spingendo verso politiche precostituzionali, come con la ricentralizzazione in materia territoriale, o lo svuotamento dello statuto catalano. Non solo con la nota sentenza del Tribunale costituzionale, ma anche per le politiche di sistematica violazione delle sue norme. O la riforma dell’articolo 135 della Costituzione (per dare al pagamento del debito pubblico priorità su tutto, ndr) che ha svuotato la garanzia dei diritti sociali. E naturalmente quello che vediamo sulla corruzione, che mette in dubbio l’esistenza di un potere giudiziale sufficientemente indipendente.
Perché il Tc spagnolo gode di meno fiducia della Corte costituzionale italiana? È solo una questione di modalità di nomina?
La vostra costituzione è chiaramente antifascista, e la Corte costituzionale ha sempre avuto un ruolo garantista nella cultura politica italiana. Il caso spagnolo è diverso. La costituzione del 1978 non è di rottura con la dittatura franchista. Il Tc all’inizio degli anni 80 aveva un po’ questo ruolo terzo, ma si è andato perdendo con gli anni. Fino ad arrivare allo scandalo attuale, dove vi siedono persino militanti dichiarati del Pp. Il Tc non è stato il guardiano degli elementi più sociali, democratici e decentralizzatori, al contrario: ha accompagnato il loro svuotamento. Per questo l’attuale quadro costituzionale è esaurito.
Come superare questa interpretazione tanto restrittiva?
È la grande domanda. Ci sono cose che potrebbero cambiare con una nuova maggioranza politica. Certamente servono processi di riforme costituzionali, ma si potrebbero fare molte cose senza toccare la costituzione. Per esempio, una consulta accordata per la Catalogna si potrebbe fare riformando la legge sul referendum, che è una legge organica, per modificare la quale basta solo una maggioranza assoluta. O le riforme del lavoro, il controllo sugli affitti – tutto questo si può cambiare senza toccare un rigo della Costituzione. E questo neutralizzerebbe la giurisprudenza restrittiva del Tc perché lo obbligherebbe a interpretare le norme in altro modo. Ci sono vie, ma passano tutte dalla cacciata del Pp; e questo apre il problema del ruolo del Psoe.
Lei viene da un lungo attivismo politico. È stato più facile o difficile di quello che pensava amministrare una città come Barcellona?
Quando noi e le altre candidature municipaliste arrivammo alle istituzioni nel 2015, sorprendemmo l’establishment e noi stessi: non avevamo legami con il potere finanziario o quello mediatico. Ma eravamo in minoranza, 11 consiglieri su 41. Questo ha influito sul programma di cambio che volevamo portare avanti. Ma eravamo coscienti che i cambiamenti che potevamo promuovere dalle istituzioni dipendevano dalla capacità di mobilitazione delle piazze. Quando entri nelle istituzioni ti rendi conto della correlazione di forze reali, e di come in questi anni di neoliberalismo si sia prodotta un’accumulazione di potere politico, economico e mediatico enorme, che ostacola i processi di democratizzazione. Ma nonostante tutto, siamo riusciti a introdurre nell’agenda politica temi che non si trattavano, abbiamo contribuito al cambio dell’egemonia culturale: la lotta contro la speculazione, la guerra contro le disuguaglianze, o contro le politiche di austerità. Malgrado i nostri limiti, abbiamo promosso budget espansivi e che non tagliavano diritti. Certo, siamo stati aiutati dalle buone condizioni finanziare che abbiamo ereditato. Ma c’è stato un cambio evidente nelle priorità concrete.
Mi faccia esempi concreti.
La prima cosa che abbiamo fatto è dedicare più risorse ai quartieri che avevano sofferto di più per la crisi, a politiche per l’occupazione di qualità. Stiamo facendo una battaglia sulla contrattazione pubblica, nido di tutti i casi di corruzione in Spagna. Stiamo promuovendo l’economia sociale e cooperativa, esplorando formule abitative nuove per la città, come il co-housing, scommettendo sull’affitto sociale, rilanciando la politica di memoria storica, antifascista, repubblicana, libertaria e femminista di questa città. Dal punto di vista ecologico, il modello di trasporto pubblico, la costruzione di piste ciclabili, per fare perdere al veicolo privato il protagonismo in città. Mi preoccupa che sia insufficiente, o che le persone che lo stanno passando peggio non lo percepiscano come sufficiente. A volte le persone ci chiedono cose come se controllassimo la politica catalana o spagnola!
L’opposizione dei poteri forti è diminuita?
Non saremo mai la loro opzione, ma in politica ci sono sempre tregue. All’inizio tutti pensavano che non saremmo durati neanche un mese, e che ci sarebbe stato il caos. C’erano movimenti per mandarci via, ma quando abbiamo dimostrato di saper imparare velocemente, che persone senza esperienza istituzionale potevano fare una gestione rigorosa e onesta, che la città funzionava, in molti si sono ricreduti e hanno tentato di tessere accordi su questioni concrete. Il processo indipendentista e la deriva nazionalista del Pdcat, ha fatto sì che molti settori economici perdessero il loro punto di riferimento: e i radicali che erano venuti a distruggere la città invece promuovevano politiche ragionevoli…
Cosa vi ha aiutato di più: l’alleanza coi socialisti, l’accordo con il governo catalano per facilitare il referendum in città, o il carisma di Ada Colau?
All’inizio abbiamo cercato una maggioranza di sinistra con Psc, Erc e la Cup. Alla fine solo i socialisti sono voluti entrare in giunta. Questo ci ha dato maggiore stabilità e respiro, ci ha aiutato la loro conoscenza dell’amministrazione, dato che avevano governato molti anni. Nonostante il rischio di incorporare inerzie del passato, credo che per una volta siamo stati noi a trascinare la socialdemocrazia su posizioni più avanzate. Rispetto al soberanismo, siamo riusciti a mostrare che il comune è un suo difensore come espressione di radicalità democratica, ma senza abbracciare la posizione del Govern. Cosa difficile: per esempio, la Cup non c’è riuscita. E certamente la figura di Ada è stata fondamentale. Il municipalismo è personalista, il ruolo di sindaco è molto simbolico, e lei è stata fin da subito capace di conquistare la città, ed è riuscita ad aprire il ventaglio di alleanze necessarie per portare avanti le nostre politiche. E poi la gestione degli attentati, una prova del fuoco, le ha fatto fare un salto come leader politica, la si è vista come sindaca di tutta la città. Infine il conflitto catalano: è riuscita ad assumere un ruolo di mediazione e di dialogo. Mi sorprende sempre vedere come è riuscita a diventare un referente anche internazionale. Se vengono Noam Chomski, Naomi Klein o Owen Jones vogliono tutti andare a parlare con lei.
L’immagine di una città guidata da una donna, un sudamericano e un gay, il secondo vice, il socialista Jaume Collboni, è molto potente: Barcellona è cambiata.
Dico sempre che nel maggio 2015 c’è stata un’esplosione democratica che ha prodotto cose come queste, con un governo chiaramente femminista: non era mai successo in questa città. È anche l’effetto del 15-M, il movimento degli indignados, ma che si lega con quello che è sempre stato lo spirito libertario di Barcellona. Io ho ricevuto molti attacchi xenofobi in generale dall’estrema desta, e anche dai settori più esaltati del nazionalismo catalano, ma in termini generali credo che la città mi ha accettato con grande normalità. È stato un cambiamento politico-culturale molto rilevante. E poi la nostra è una squadra coesa. La vita può essere molto meschina se non ammiri nessuno: molti ammirano persone più anziane o famose: io ammiro molto i miei colleghi di giunta, e l’impegno con cui lavorano.
La sua storia personale è stata molto dura. Come l’ha marcato?
È un marchio che spiega in buona misura perché sono qui oggi. Per esperienza biografica so che le cose possono peggiorare, e molto, e che la minaccia del retrocesso antidemocratico c’è sempre, non c’è nessuna conquista che sia assolutamente irreversibile. So che la lunga notte può tornare, ma so anche che persino le situazioni più dure si possono superare quando i legami comunitari sono forti e quando hai una società disposta a farlo. Sono docente, e ho grande fiducia nelle potenzialità creative delle persone, dei più giovani. Per questo dico: anche se vedo la possibilità di un retrocesso democratico, che in parte si sta producendo in Europa, vedo anche la resistenza e la permanente irruzione di esperienze democratizzatrici della gente comune che ci dà speranza.
In che modo le cose che fa la legano a suo padre?
Ogni volta che come comune facciamo cose per la giustizia sociale e per le libertà, o un atto per condannare l’islamofobia o l’antisemitismo, quando facciamo politiche per difendere il diritto alla casa, affrontiamo le lobby finanziarie o cerchiamo di rendere questa città più gentile, inevitabilmente penso a mio papà perché penso che questi erano i suoi sogni. Lo faccio per onorare la sua memoria, e di tutti quelli che hanno lottato per un mondo migliore. Quello che fai, lo fai per te, per quelli che verranno, per i tuoi figli, e per tutti quelli che nel mondo hanno lottato per ideali simili.
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