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Una settimana lunga cento anni

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Storie Malatesta lo aveva annunciato: «La rivoluzione è scoppiata!». La storia dei sette giorni del 1914 capaci di lasciare, nell’anconetano e nella Romagna, una traccia profonda nell’immaginario popolare: il proletariato sfiora la Rivoluzione Sociale

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 26 giugno 2014

Cent’anni fa il proletariato italiano è sconvolto dalle notizie che provengono da Ancona. Il 7 giugno 1914 i circoli repubblicani, anarchici e socialisti convocano, nell’anniversario dello Statuto Albertino, un grande comizio nazionale per l’abolizione delle Compagnie di Disciplina nell’Esercito, per esprimere solidarietà e vicinanza a tutte le vittime del militarismo e in particolare a due soldati anarchici, divenuti simboli delle persecuzioni militariste. Il muratore Augusto Masetti, nato a Sala Bolognese (Bo) il 12 aprile 1888, la mattina del 30 ottobre 1911, alla caserma Cialdini di Bologna, gridando «Abbasso la guerra! W l’anarchia!», spara al colonnello Stroppa che elogia la guerra di Libia, ferendolo alla spalla. Giudicato pazzo, è rinchiuso nel manicomio criminale di Imola. Il tipografo Antonio Moroni, nato a Milano il 17 agosto 1892, dalla Caserma di Napoli, in una lettera al fratello, lamenta il durissimo trattamento per le sue idee politiche. Pubblicata dall’«Avanti! » il 23 dicembre 1912, gli costa l’incriminazione per diffamazione dell’esercito; prosciolto dal Tribunale di Cagliari il 27 aprile 1913, è tradotto alla compagnia di disciplina di San Leo di Romagna (Pe).

Gli spari, i morti

Il comizio antimilitarista è vietato. Nella mattinata sono arrestati alcuni anarchici con Errico Malatesta, agitatore e oratore molto conosciuto (nel 1897 ha fondato «L’Agitazione» e nel 1913 «Volontà»): la polizia teme voglia turbare la festa dello Statuto. Gli ordini sono severi, proibiti gli assembramenti anche di due o tre persone. Un altro gruppo di lavoratori, con il giovane Pietro Nenni – che da poco dirige il periodico repubblicano «Lucifero», fondato nel 1870 – viene preso a pugni e a bastonate. Malatesta, che gode di molte simpatie per la coerenza e il rigore politico, avendo dato la sua parola che non sarebbero avvenuti disordini né tumulti, viene rilasciato. Alla Casa del Proletariato con Malatesta si delibera di tenere alle 16 in forma privata il comizio di protesta a Villa Rossa, sede del Partito Repubblicano. Alla manifestazione partecipano giovani e repubblicani. Pietroni della Camera del Lavoro, Pietro Nenni e l’avvocato Oddo Marinelli per i repubblicani, Malatesta per gli anarchici, Ercole Ciardi per i ferrovieri e Pelizza per il Comitato di agitazione contro le compagnie di disciplina, parlano applauditissimi contro la guerra ( già nell’aria: la scintilla avverrà il 28 giugno con l’attentato di Sarajevo). Alle 18, votato un vibrante ordine del giorno contro la guerra, Malatesta se ne va prima degli altri, e la folla trova davanti Villa Rossa due cordoni di carabinieri che – temendo vogliano disturbare la festa dello Statuto – non permettono di passare. I militari improvvisamente sparano all’impazzata. È un fuggi fuggi fra urla di terrore. Sul selciato di Via Torrioni giace il tappezziere anarchico di 22 anni Attilio Giambrignone, colpito al petto, mentre il commesso repubblicano Antonio Casaccia di 24 anni, sparato mentre esce, muore all’ospedale. Il facchino repubblicano Nello Budini di 17 anni muore il giorno dopo.

Il comizio di Malatesta

Nel comizio Malatesta si limita a rimproverare i socialisti e il loro quotidiano per lo scarso appoggio alla campagna antimilitarista. Racconta il «Lucifero» la sera del 7: il tenente Opezzi, perduta la calma, aggredisce verbalmente Oddo Marinelli, che lo invita a fermare i carabinieri che – senza suonare i tre squilli di tromba – sparano, mirando chi è affacciato alle finestre di Villa Rossa e di Villa Stamura. Finita la sparatoria Pietro Nenni e altri escono e si lanciano contro Opezzi, che giura di non aver ordinato il fuoco. Giungono centinaia di donne piangenti ed imprecanti. Al questore, Marinelli «indicò ad uno ad uno i funzionari che capeggiavano il drappello degli assassini» e, dopo aver arringato la folla, che gridava «Assassini!», ottiene il silenzio della banda e il ritiro delle truppe. Al questore chiede invano i nomi dei carabinieri e di ispezionare le rivoltelle per sapere chi ha sparato. Gli è detto che il controllo sarebbe avvenuto in caserma; «Ma in mia presenza!» ribatte l’avvocato e la folla lo accompagna. Grazie a Marinelli «Lucifero» pubblica i nomi dei carabinieri che hanno sparato e il numero dei colpi che mancano nelle loro pistole: a Giuseppe Di Cola ne mancano 6, altrettanti a Depanfilo, facendo presente che, dotati di rifornimento, molti hanno sparato e ricaricato i loro fucili. Le canne delle rivoltelle risultano pulite ma all’avvocato Marinelli non è consentito controllarle. La questura, sostenendo che avevano sparato dall’interno del salone, attribuisce la colpa ai cittadini. È falso, i partecipanti erano tutti disarmati. Il giornale commenta: «Se le belve monturate volevano sparare a tutti i costi, potevano almeno sparare in aria», smentisce il lancio di sassi, tavoli, barili ed altro ai carabinieri, tranne il lancio di un fascio di canne secche e di manifestini bianchi scambiati per una pietra. Un’ondata di indignazione si diffonde per la città. Ne «La Stampa» dell’8 giugno un testimone oculare conferma che non sono stati lanciati sassi e che la riunione privata era stata indetta per protestare contro il comizio vietato all’ultimo momento. All’uscita le vie sono sbarrate. I carabinieri respingono e bastonano i cittadini che gridano «Assassini! vigliacchi! Lasciateci passare! Non vogliamo far niente!». Nella nottata i ritrovi pubblici sono chiusi in segno di lutto e la Camera del Lavoro proclama lo sciopero generale, che sarà continuato oltre la sepoltura dei morti.

Eccidi proletari

Alla notizia dell’ennesimo eccidio proletario, che si diffonde rapidamente, avvengono manifestazioni spontanee di protesta, soprattutto nelle Marche e nelle Romagne. A Napoli gli esercizi pubblici sono chiusi, i dimostranti al Consolato russo, in Piazza Plebiscito, al rifiuto di togliere la bandiera italiana, frantumano i vetri; al Consolato degli Stati uniti ottengono il ritiro della bandiera italiana e americana. Tre dimostranti muoiono e quattro sono feriti. Nelle strade e nelle piazze soldati e cavalleria. La Camera del Lavoro partecipa in forma solenne ai funerali. La questura, tra repubblicani e anarchici, arresta trenta persone. Alla Camera l’8 giugno, l’onorevole Graziadei grida: «Questo degli eccidi proletari è un primato dell’Italia tra le genti civili». Salandra – scrive «La Stampa» – «attraversa un brutto quarto d’ora». Il Partito Socialista e la Camera del Lavoro proclamano lo sciopero generale.

Ad Ancora ferita, pallida sotto il sole velato, Malatesta «si aderge tonante nei comizi che si moltiplicano, e l’agitatore anarchico padroneggia la folla con la sua caratteristica eloquenza, che fa vibrare sentimenti di dolore, di pietà, di ribellione». Violentissimo, afferma la necessità della rivolta armata contro lo Stato, contro i suoi poteri e contro l’esercito. Il vice-commissario di pubblica sicurezza è messo in fuga con gli agenti inseguiti con sassi e bastoni. A fine comizio, alle 11, un’imponente colonna fischia la prefettura; al Municipio chiede di esporre la bandiera abbrunata in segno di lutto. Lanci di sassi frantumano i vetri, le abitazioni di alcuni benpensanti sono assaltate, i ferri delle recinzioni sono spezzati per farne proiettili, un gruppo di signore che siedono al caffè Garelli deve ritirarsi. Viene proclamato il lutto cittadino. La città rimane al buio, il quotidiano «L’Ordine» non esce da due giorni, al contrario del «Lucifero», che narra gli avvenimenti. Le comunicazioni telegrafiche e telefoniche sono sospese per ordine del governo.

Le bastonate al «prof. Mussolini»

A Milano «il prof. Mussolini, direttore dell’Avanti», viene morso ad una mano da un carabiniere. Il sindacalista Filippo Corridoni arringa la folla e rimprovera chi applaude i soldati. Ha una forte bastonata sulla paglietta e lo arrestano. Al Duomo, in una feroce colluttazione, il «prof. Mussolini», bastonato, stramazza al suolo. Scontri, feriti e anche morti – come a Firenze – si contano in ogni parte. Da Bologna, 70 persone sono arrestate e 45 staffette ciclistiche partono per portare l’ordine dello sciopero. I ferrovieri scioperano. Nelle città vengono assaltate le armerie. A Imola 200 manifestanti occupano la stazione, bloccano i treni, la folla grida «Viva la rivoluzione sociale!». Alla Camera ci sono 25 interrogazioni. Per i funerali, che si prevedono imponenti, fissati il 10 giugno, arrivano 2000 soldati. La pietà popolare para a lutto le case delle vittime. Si prevedono non meno di diecimila persone. Arrivano i deputati dell’Estrema (repubblicani e socialisti) e altri rinforzi di truppe. Nel pomeriggio dietro le tre bare c’è una massa sterminata di persone, calcolate in oltre ventimila. In Romagna, dove i repubblicano e gli anarchici sono una componente fondamentale, la rivolta ha carattere rivoluzionario: assalti e incendi a chiese e palazzi, un generale è disarmato e fatto prigioniero, in alcune piazze sorge l’albero della libertà.
I dimostranti bloccano le linee ferroviarie, tagliano i fili telefonici e telegrafici per impedire lo spostamento delle truppe e le comunicazioni e quindi l’organizzazione della repressione. Le notizie sul successo della rivoluzione aumentano l’entusiasmo degli insorti. La protesta si estende da un capo all’altro. Le autorità, il governo e la monarchia temono la Rivoluzione e di essere spazzate via.

Autogestione anarchica

È terribile la Settimana Rossa. Malatesta, ne La caduta della monarchia sabauda, su «Volontà» del 13 giugno scrive: «Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme […]E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti ed anarchici. La monarchia è condannata. Cadrà oggi, o cadrà domani, ma cadrà sicuramente e presto». In E ora?, del 20 giugno, promette: «Ora continueremo […]Se il governo e la borghesia s’immaginano di aver vinto la rivoluzione e di averla domata, s’accorgeranno un giorno quanto mai è grande il loro errore». Nenni è arrestato, Marinelli si rifugia in Svizzera. Malatesta, che abita in Via Astagno, secondo la polizia un posto malfamato e che non é possibile sorvegliare, pena la vita, visto l’ultima volta nel pomeriggio del 14 in macchina, raggiunge Londra (rientrerà nel 1919). Sano e salvo, scrive a Mussolini, all’«Avanti!», – in segno di sfida alla polizia – l’indirizzo.

Da Innsbruck (a meno che non sia una falsa indicazione) il 21 giugno incarica l’avv. Augusto Giardini della difesa.Nella Settimana Rossa, Ancona è autogestita in modo mirabile dagli anarchici, che organizzano la distribuzione dei viveri prima alle donne e ai fanciulli. Il 14 giugno è tutto finito: era mancata l’unità, non c’erano organizzazioni in grado d’incanalare le forze e dare un programma e uno sbocco rivoluzionario. Nell’anconetano e nella Romagna lascia una traccia profonda nell’immaginario popolare: il proletariato, dando prova di combattività, aveva sfiorato la Rivoluzione Sociale.

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