Una rivolta sociale contro l’«editto sovrano»
Francia Il presidente francese ha potuto assecondare in pieno spirito liberista gli interessi della grande borghesia francese con una arroganza e una sicumera non scalfite dall’aver perso la sicurezza della maggioranza parlamentare
Francia Il presidente francese ha potuto assecondare in pieno spirito liberista gli interessi della grande borghesia francese con una arroganza e una sicumera non scalfite dall’aver perso la sicurezza della maggioranza parlamentare
Emmanuel Macron è stato eletto presidente dei francesi per fare fronte a un problema che in Italia non esiste più: impedire che l’estrema destra prenda le redini del governo. Certo l’Italia non è una Repubblica presidenziale (ma chissà fino a quando).
E i postfascisti, sdoganati da un pezzo, hanno già partecipato al governo del paese in posizioni apicali, esperienza invece finora preclusa al Rassemblement di Marine Le Pen.
Avvalendosi di questa funzione apotropaica (tener lontani gli spiriti maligni) il presidente francese ha potuto assecondare in pieno spirito liberista gli interessi della grande borghesia francese con una arroganza e una sicumera non scalfite dall’aver perso la sicurezza della maggioranza parlamentare.
Nonché dallo scarso entusiasmo che le sue proposte europee hanno incontrato. E procedere, dunque, senza scrupoli né mediazioni a quella «modernizzazione» del paese sulle spalle dei lavoratori e dei ceti medi che ha suscitato un rifiuto generalizzato della società francese e una ostilità profonda nei confronti del presidente stesso.
Come procedere allora senza un garantito appoggio parlamentare, contro l’ampia maggioranza dell’opinione pubblica che rifiuta la riforma del sistema pensionistico, contro una reazione dura e persistente dei sindacati e delle piazze, contro il moltiplicarsi incontrollabile delle azioni di protesta spontanee?
Solo con un «atto sovrano» quale è il ricorso al dispositivo previsto dall’articolo 49.3 della Carta fondamentale che scavalca il voto dell’Assemblea nazionale per imporre una legge. Costituzionale, certo, ma molto assonante con l’editto, il regio decreto, l’atto di imperio, è questa prerogativa sovrana che la V Repubblica attribuisce al potere esecutivo.
Soprattutto quando vi si ricorra non in risposta a schermaglie e ostruzionismi parlamentari, ma nel contesto di un paese in subbuglio nel quale generazioni e figure sociali diverse, grandi città e piccoli centri hanno raggiunto nell’imponente movimento di protesta in corso una evidente massa critica.
Così lo scontro si allarga ben oltre l’innalzamento dell’età pensionistica, (tema molto sensibile in Francia come tutto ciò che riguarda il rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro) spacciato per mero problema contabile e giustificato con il linguaggio di un «dispotismo illuminato» in questo caso dalla dottrina neoliberale.
Diventa uno scontro diretto con il sovrano, con la sua autorità e il suo potere decisionista e dunque qualcosa che non rientra più nella prospettiva concettuale della destra che, nella mozione «transpartitica» di censura contro il governo sconfitta per soli 9 voti, rimaneva comunque una presenza, seppure mascherata e diluita. Una sollevazione, quella a cui stiamo assistendo, che fonde insieme disagi, rivendicazioni, pretese di redistribuzione e di giustizia sociale, lotta al privilegio e alle diseguaglianze, rifiuto della precarietà e delle condizioni di lavoro.
Da buon sovrano, il presidente risponde classicamente di agire nell’ «interesse generale» e per «il futuro della nazione», invitando le parti sociali a seguirlo dialoganti sulla strada del Workfare e della «reindustrializzazione». Mostra comprensione formale per la «rabbia sociale legittima» e azzarda perfino un rimbrotto rivolto al cinismo delle grandi imprese che, indisturbate, dei loro super ed extraprofitti fanno, come c’era da aspettarsi, quel che gli pare. Nessuna correzione di rotta né nel merito, né nel metodo.
Ma arrivati allo stato in cui si trova oggi la Francia è assai improbabile che questa versione neoliberale dell’«insulso» apologo di Menenio Agrippa riesca a placare la “plebe” quanto il suo archetipo storico. Come in altre occasioni il governo, non disposto a cedere su nessun punto, confida nel bisogno di un ritorno alla normalità, imputando il protrarsi del caos non alla caparbietà delle sue scelte e ai metodi impiegati per imporle, ma alla violenza della «rabbia illegittima», quella dei blocchi stradali e ferroviari, dei picchetti e delle piazze occupate.
Il modo di procedere delle forze dell’ordine, con continue cariche, centinaia di arresti e sgomberi, nonché il ricorso alle precettazioni, sembra rispondere alla scelta di gettare olio sul fuoco.
Anche Amnesty Europe lo ha denunciato. La risposta rudemente repressiva alle mobilitazioni ne sta intanto accrescendo l’ampiezza e la determinazione. L’Iter della riforma pensionistica è tutt’altro che concluso, il braccio di ferro su tutto il resto anche. Ma la reattività della società francese ha mostrato ancora una volta di non poter essere né aggirata né raggirata.
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