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Una rivolta di tutti, radicale e senza leader

Una rivolta di tutti, radicale e senza leaderLa manifestazione a Berlino contro il regime iraniano – Clemens Bilan/Ap

I giorni dell'Iran Le differenze rispetto all'Onda verde del 2009

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 23 ottobre 2022

All’inizio delle proteste iraniane l’appello «Hamvatan! Bia ba ham harf bezanim!» («Compatrioti, parliamoci!») era stato pubblicato dall’agenzia Fars legata ai pasdaran. Parole che, agli iraniani, ricordano quelle usate dal paciere nelle liti di coppia.

Queste sei settimane di proteste e repressione dimostrano però che per i vertici di Teheran non sarà facile mettere a tacere il dissenso: parlarsi non serve, cercare un compromesso con la leadership della Repubblica islamica nemmeno. A dimostrarne l’inutilità sono le vicende di una serie di personaggi che hanno dapprima avuto un ruolo di primo piano nella Rivoluzione del 1979 ma, nel momento in cui hanno assunto un atteggiamento più critico, sono stati perseguitati ed estromessi. I casi eclatanti sono quello del Grande ayatollah Montazeri e quello del filosofo Abdolkarim Soroush.
L’ayatollah Montazeri era stato uno dei fedelissimi di Khomeini fin dal tempo delle proteste del 1963 e del suo esilio l’anno successivo. Con la Rivoluzione del 1979, i suoi uomini avevano portato avanti le esecuzioni di massa a Isfahan e lui si era guadagnato il diritto alla successione a capo della Repubblica islamica. Quando aveva osato criticare ulteriori massacri di regime, era stato costretto a rassegnare le dimissioni. Considerato un difensore dei diritti umani, era stato messo agli arresti domiciliari ed è morto nel 2009, poco dopo le proteste del movimento verde di opposizione che aveva sostenuto.

Un ulteriore caso è quello del filosofo Abdolkarim Soroush: all’indomani della Rivoluzione del 1979 era stato membro del Consiglio rivoluzionario incaricato delle purghe e dell’islamizzazione delle università, per poi trasformarsi in una sorta di Martin Luther King dei riformisti ed essere obbligato ad andare in esilio.

Quella in corso non si può ancora definire «rivoluzione». I moti di protesta contro lo scià necessitarono di tredici mesi prima di ottenerne la fuga, il 16 gennaio 1979. Di certo non possiamo etichettarla come «rivoluzione delle donne», perché in prima linea ci sono tanti uomini. E non è nemmeno la «rivoluzione dei giovani» perché a protestare sono anche anziani. È il caso dell’ottantenne Gohar Eshghi: madre del blogger Sattar Beheshti, arrestato dalla polizia informatica e ucciso in prigione nel 2012, si è tolta il velo davanti alla telecamera e quel video è subito diventato virale. Per ora sappiamo che si tratta di proteste che coinvolgono generazioni diverse, dagli adolescenti agli anziani, in molteplici aree dell’Iran, dalla provincia del Kurdistan nell’ovest fino al Sistan e Balucistan nel sudest, passando per le città.

Le differenze rispetto al movimento verde del 2009 sono evidenti. Innanzi tutto, a quel tempo c’erano tre leader: Mir Hossein Musavi, sua moglie Zahra Rahnavard, e Mehdi Karrubi. Restarono agli arresti domiciliari per anni. Di loro è apparsa qualche immagine sui social, invecchiati e senza il carisma di un tempo. In secondo luogo, in quella occasione a protestare era il ceto medio in contesti urbani. Terzo, chiedevano dove fosse finito il loro voto, visto che l’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad si era aggiudicato un secondo mandato presidenziale. Motivate dai brogli, le rivendicazioni erano in primis politiche. Quarto: la leadership dell’Onda verde invocava la memoria di Khomeini, citava testi ratificati dalle istituzioni della Repubblica islamica e chiedeva, invano, il sostegno dei vertici del clero sciita. Quinto: simbolo di protesta era il velo verde, colore simbolico per l’Islam.

Oggi, tutto è cambiato, a cominciare dal foulard che viene bruciato come atto di ribellione. I riformisti di un tempo non sono in prima linea e, se interpellati, chiedono di evitare gesti di rottura con il passato. Non ci sono leader e quindi il movimento di protesta non può essere decapitato. Le proteste sono partite dalla provincia iraniana del Kurdistan e non dalla capitale. Per scendere in strada, gli iraniani non hanno bisogno di internet, che le autorità hanno rallentato e, in certi orari, bloccano del tutto. A protestare sono tutte le generazioni e i ceti sociali. La differenza principale, rispetto al 2009, è che la gente che scende in strada non cerca un qualche compromesso perché è ben consapevole che non serve a niente. Ed è proprio questo il senso dello slogan «Boro gom shod!» («Andate a quel paese!») rivolto alle autorità e scandito dalle liceali in diverse località.

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