Il titolo del nuovo libro di Tino Mantarro, L’attrazione dei passi, è assai affascinante. Anche perché i passi di cui parla non sono quelli che mettiamo in fila uno dopo l’altro durante un trekking o un cammino di più giorni, ma i passi di montagna, quelli a cui si arriva per affacciarsi sull’altrove, per conquistare un nuovo pezzo d’orizzonte, per soddisfare la curiosità di vedere oltre.

QUESTA APOLOGIA DEI VALICHI in formato tascabile, uscita a febbraio 2023 nella collana Piccola filosofia di viaggio di Ediciclo editore, sta esattamente a metà strada tra un reportage e un saggio, e vuole aiutare il lettore a capire che ciò che per il senso comune divide spesso e in realtà unisce. Per l’autore da cui è facile – per chi ne è affascinato – raggiungere alcuni tra i maggiori passi alpini, ad esempio quelli resi epici dal Giro d’Italia, lo Stelvio o il Gavia.

PASSI CHE IL GIOVANE TINO, da quando ha compiuto i 18 anni, intorno alla metà degli anni Novanta, inizia a scoprire con gli amici, rigorosamente in auto. Diventato adulto, il lavoro (Mantarro è giornalista e da quindici anni lavora per Touring, il mensile del Touring Club Italiano) lo porterà ad esplorare passi in tutto il mondo, sempre mosso dalla stessa sete di conoscenza, dalla voglia di «scoprire cosa c’è oltre le cime» come spiega il sottotitolo.

PER QUESTO ALL’INIZIO del libro l’autore riporta un episodio avvenuto in Cina: «Il punto è che quando siamo arrivati in cima al passo l’autista non si è fermato, non ha fatto la sosta che si fa ovunque al mondo per celebrare l’avvenuto scollinamento, far riposare il motore, sgranchire le gambe, respirare aria fresca e guardare il paesaggio. No: ha cambiato marcia, ha sgasato ed è andato oltre. E io, che da sempre sono un collezionista di passi alpini, passaggi montani e attraversamenti d’alta quota in genere, sono rimasto deluso».

QUESTA DELUSIONE è di chi ama l’aspetto culturale di tutti quei passi o valichi, che per l’enciclopedia sono solo il «punto di attraversamento di in un contrafforte montuoso grazie a una depressione». Perché è vero che i valichi – come i fiumi – spesso sono stati usati come segno incontrovertibile dei confini naturali, e dunque politici, di un Paese o di una regione, ma quello di «confine naturale è un concetto vecchio» scrive Mantarro, e lo stesso vale per quello di frontiera, che fino a qualche anno sembra in ritirata.

«CHE I PASSI UNISCANO te ne accorgi ogni volta che entri in una di queste locande d’alta quota, sfogli il menù e annusi l’atmosfera. La cultura alpina se ne frega di passi e confini» sostiene. Mantarro accompagna i lettori nella storia dei passi alpini e appenninici, perché «per secoli valicare un passo, come viaggiare, era un rischio necessario, non si poteva fare altrimenti».

È SUL GRAN SAN BERNARDO, ad esempio, che raccoglie un messaggio universale di fondamentale importanza in questo 2023 di ritorno delle frontiere: la nostra «porta è sempre rimasta aperta, perché questa è la nostra missione: accogliere, assistere e proteggere i viaggiatori, senza chiedere nulla. Men che meno documenti» si fa vanto il priore dell’Hospice du Grand-Saint-Bernard, il canonico agostiniano Jean-Michel Lonfat. L’ospizio – annota Mantarro – non chiude mai, da mille anni. «Di qui passava la Via Francigena, che in epoca medievale era semplicemente la strada migliore, ancorché faticosa e rischiosa, per valicare le Alpi nel settore occidentale».

AL POSTO DEL PASSO, PERO’, ormai c’è una galleria, giù in basso: «Ormai alla fatica del passo – salita o discesa, sempre fatica si fa – in tanti preferiscono l’anonima comoda rapidità del tunnel» scrive Mantarro. Ed è forse tempo che la società torni a conoscere, vivere e transitare sui passi, perché la via più breve non porta sempre al futuro.