Se è vero che i classici (Calvino dixit) sono i «contemporanei del futuro», Emily Dickinson (1830-’86) e Gerard Manley Hopkins (1844-’89) – quasi esattamente contemporanei sulle sponde opposte dell’Atlantico – noi li sentiamo «classici» in modo così particolare, ricco e strano, forse anche perché non hanno mai avuto un «presente» loro, se non strettamente privato. Appaiono sulla scena dopo, a Novecento inoltrato, più antichi (in confidenza con Dio come sono) e più moderni (in lotta) al tempo stesso: ormai è più o meno un secolo e l’effetto non accenna ad attenuarsi. Ora eccoli, per bella coincidenza uno di seguito all’altra, nei due quaderni più recenti della mai troppo lodata collana «dieci x uno – una poesia dieci traduzioni» di Mucchi Editore: La mia vita se ne stava – un fucile carico (My Life had stood – a Loaded Gun) della Dickinson (a cura di Massimo Bacigalupo) e Bellezza screziata (Pied Beauty) di Hopkins (a cura di Viola Papetti, con un agile scritto di Antonio Spadaro; entrambi € 8,00).

A gran dispetto dei suoi troppi teorizzatori, la traduzione della poesia, si sa, è operazione eminentemente pratica, così Bacigalupo e la Papetti – traduttori di lungo (il primo lunghissimo) corso – inanellando le versioni scelte saggiamente offrono non un discorso organizzato quanto una serie d’osservazioni empiriche, appunti di lavoro. Il che non preclude, anzi incoraggia, interessanti aperçus. Laddove, ad esempio, Bacigalupo nota come Louise Glück personalmente abbia respinto la «filiazione» dalla Dickinson, ma poi finisca per citarne un distico proprio nel discorso del Nobel; o dove Viola Papetti segnala analogie fra la poesia di Hopkins e il Cantico delle creature di San Francesco.

Come lo stesso Bacigalupo riconosce, le dieci traduzioni di My Life had stood (di Emilio e Giuditta Cecchi, Margherita Guidacci, Nadia Campana ecc.) non differiscono granché l’una dall’altra, né alcuna torreggia (e peccato, aggiungo io, non ne abbia fatta una anche Nicola Gardini, che una ventina d’anni fa aveva realizzato un’antologia, Buongiorno notte, quanto mai d’autore, con esiti di convincentissima originalità). I nuovi traduttori di Pied Beauty, invece, han da confrontarsi con la Bellezza cangiante di Eugenio Montale: non necessariamente il migliore (anche la sua unica traduzione dalla Dickinson, Tempesta, ha le sue magagne) ma il più intimidente dei precursori. Così alcuni di essi, i più audaci, si direbbero animati da quello che Poe chiamava the imp of the perverse: il diavoletto della perversione.

Come Gilberto Sacerdoti, che traduce Bellezza confusa, resistendo per un soffio alla tentazione di metterci pasticciata: dato che pied è forse davvero etimologicamente relato a [apple] pie! O Patrizia Valduga, la quale – convinta com’è che «in poesia, la fedeltà alla forma sia l’unica forma di fedeltà» – nel titolo sceglie pezzata, poi cerca di rispettare metrica e rime, al prezzo, ammette, di rinunce non da poco: «ho perso la vacca, il nuoto delle trote, la freschezza del tizzone…». Talvolta gli autori-traduttori, nelle loro riflessioni a margine, sono spiritosi quasi come la poesia che si accingono a volgere in altra lingua. E qui la palma va probabilmente a Beppe Fenoglio, nel ’51 (tre anni dopo la traduzione di Montale): «Hopkins, che tra l’altro usa il dare al medesimo vocabolo una mezza dozzina di significati diversi e graduati, è il più intraducibile di tutti gli intraducibili. Ad ogni modo, chiunque si accinge a tradurlo, può fare certo assegnamento sul suo cristiano perdono».