Internazionale

Lo scontro esistenziale tra odio politico e democrazia

Monroe, Pennsylvania: l’iniziativa annuale «Machine Gun Shoot» foto Spencer Platt/Getty ImagesMonroe, Pennsylvania: l’iniziativa annuale «Machine Gun Shoot» – foto Spencer Platt/Getty Images

Elettorale americana Intervista allo storico Richard Slotkin: «La funzione del diritto alle armi è santificare o "costituzionalizzare" la violenza sociale e politica. Il movimento Maga pensa di trionfare incitando l’odio attivo verso le minoranze»

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 2 novembre 2024
Giovanna BrancaINVIATA A NEW YORK

L’America è «dappertutto e da nessuna parte». È nei miti che ne hanno strutturato la storia, la politica, le strutture sociali, i sogni e le aspirazioni, ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere. Dal mito della Fondazione a quello del Movimento – del sogno di una nazione «giusta» concepito dal movimento per i diritti civili – passando per la Lost Cause (il mito dei sudisti sconfitti dall’esercito unionista) e la wilderness della Frontiera. Storico, critico culturale, Richard Slotkin ha dedicato gran parte del suo lavoro all’analisi di questi miti, a partire proprio da quello della Frontiera, in testi come Regeneration Through Violence. Nel suo ultimo libro – A Great Disorder. National Myth and the Battle for America – analizza come questi miti confluiscono, riemergono e danno forma, o al contrario vengono riplasmati, nell’attuale panorama politico statunitense, nelle culture war fra stati blu e rossi, nella contrapposizione esistenziale fra America trumpista e democratica.

Abbiamo parlato con lui dei temi al centro dell’attualità a pochi giorni dal voto.

Pensa che in futuro l’insurrezione del 6 gennaio possa diventare uno dei miti di cui parla nel libro? A proposito della contrapposizione fra America democratica e Maga lei scrive che «è incerto quale di questi due sistemi di pensiero otterrà il potere di dare forma al futuro della nazione». Una vittoria di Trump potrebbe riscrivere la narrativa di quel giorno come un’impresa eroica?
Il 6 gennaio ha visto diversi miti nazionali, nella loro versione di destra, manifestarsi sullo schermo e nelle strade. Il mito della Fondazione, nel suo aspetto rivoluzionario (in accoppiamento con il feticismo per il Secondo emendamento), la Frontiera (cappelli da cowboy, vigilantes), e la Lost Cause: l’impiego della violenza per rovesciare un regime liberale/razzialmente integrato e ripristinare un patriarcato bianco e cristiano. L’evento stesso ha già acquisito uno status mitico, come altri eventi precedenti che hanno incarnato crisi importanti: l’11 settembre, Pearl Harbor, «l’ultima battaglia» di Custer. Ognuno di questi eventi si è sviluppato come una componente di una struttura mitica più ampia, come il mito della Guerra giusta o quello della Frontiera. Credo che il 6 gennaio si svilupperà come estensione del mito della Lost Cause, e se Trump vince figurerà come l’eroe di quel mito: come un tempo è stato per un leader sudista come Wade Hampton, o per eroi di finzione di romanzi come The Clansman di Thomas Dixon o Via col vento.

Richard Slotkin
Richard Slotkin

Il suo libro chiarisce come la cultura delle armi affondi le sue radici nel razzismo: nel mito della Frontiera e la violenza contro i «selvaggi» e nello schiavismo – la prima pubblicità della Colt prometteva sicurezza proprio alle famiglie del sud «circondate» dagli schiavi nelle piantagioni. In questo senso è interessante che il Secondo emendamento abbia il potere di evocare, per metonimia, l’intero sistema di credenze della galassia Maga.
Il movimento per il diritto a possedere armi incorpora infatti elementi del mito della Frontiera (autodifesa, capitalismo senza regole), della Fondazione e della Lost Cause. La funzione del «diritto a possedere armi» all’interno di queste strutture è di santificare o «costituzionalizzare» la violenza sociale e politica. Trump e il movimento Maga pensano di poter trionfare incitando l’odio attivo contro minoranze razziali e etniche, contro chi non si conforma alla dicotomia di genere e gli oppositori ideologici. E la più intensa forma di odio, la prova più «autentica» che l’odio è sincero, è che la sua espressione si accompagni al permesso – o perfino all’invito – di usare violenza contro i suoi oggetti. L’ideologia dei «gun rights» serve a legittimare quella violenza.

Cita il discorso di Lincoln – A House Divided – in cui sostiene che o la schiavitù viene spazzata via, o prima o poi finirà per diventare legge in tutta la nazione. Dopo la sentenza in merito della Corte suprema pensa che qualcosa di simile si potrebbe dire del diritto all’aborto?
C’è una similitudine fra la divisione di stati liberi e stati schiavisti negli anni Cinquanta dell’Ottocento e quelli che chiamo stati Dobbs (la sentenza che ha abolito il diritto all’aborto, ndr) e stati Roe (la sentenza abrogata del 1973 che invece lo sanciva, ndr). La differenza dei loro regimi legali si estende, in molti casi, oltre l’aborto e include diversi trattamenti della divisione fra stato e chiesa, differenze nell’insegnamento della storia, messa al bando di libri, diritto di voto, diritti di genere. Sono segni di quella che definisco «culture war fra gli stati» che minaccia la stessa struttura legale che garantisce la nazionalità. Detto questo, la schiavitù presentava un problema di natura diversa, perché metteva in questione la definizione di «proprietà» – la protezione della proprietà è fondamentale nella Costituzione Usa – da cui la convinzione di Lincoln per cui la proprietà di persone sarebbe stata abolita o sarebbe diventata nazionale. La logica del movimento antiabortista richiede che si faccia il tentativo di approvare una legge che metta al bando l’aborto a livello nazionale. Le differenze interne a quel movimento e l’opposizione a esso con ogni probabilità condanneranno al fallimento quel tentativo, e non c’è principio costituzionale che richieda una sua risoluzione.

Scrivendo della campagna elettorale del 2016, osserva che «dichiarando i media mainstream nemici del popolo, Trump dava il permesso ai suoi seguaci di non credere a qualunque articolo potesse minare o smentire le sue affermazioni, esagerazioni, rappresentazioni errate o vere e proprie menzogne». Dopo le decisioni di non dare l’endorsement di Washington Post e Los Angeles Times, pensa che Trump stia ora «piegando» i media stessi affinché si adattino a questa realtà parallela?
Il «piegamento» dei media va più in profondità di Trump. Il potere di Fox News e di reti analoghe (come Newsmax) è ovvio. Meno ovvia è la progressiva acquisizione di testate locali da parte di corporation conservatrici come i Sinclair, i seguaci del reverendo Moon e altri. Giornalisti e opinionisti al LA Times e al Post continuano a scrivere come prima (anche se alcuni hanno dato le dimissioni); sono i proprietari miliardari delle testate a essersi piegati, forse per timore delle intenzioni di Trump nei confronti delle loro altre imprese. Altri Ceo sembrano seguire strade simili, per simili motivi. Trump piega i miliardari e, dato che questi controllano istituzioni chiave, ha il potere di piegare le strutture che danno forma alle nostre vite, dal fisco all’educazione.

A proposito di nazionalismo cristiano scrive che «le posizioni fortemente conservatrici della destra cristiana sulla famiglia patriarcale, gender e sessualità, attirano un certo supporto degli elettori neri e latini». Crede che questo elemento sia essenziale per spiegare la perdita di voti neri da parte della campagna elettorale di Harris?
Penso sia una parte della questione. Dobbiamo anche considerare la sensazione generale che le istituzioni da cui dipendevamo per garantire la nostra sicurezza e aumentare le possibilità di un miglioramento delle nostre condizioni economiche ci stiano deludendo da almeno 25 anni. Perdite che sono state più profonde per le parti meno avvantaggiate della società americana. C’è anche una componente culturale di questo senso di perdita, di cui fa parte una perdita di status – ovvero dei privilegi che spettavano a chi guadagnava un salario, ai bianchi e agli uomini. Al di là delle valutazioni di questi «privilegi» o indicatori di status, la loro perdita comporta un reale dolore emotivo e il suo corollario di rancore e risentimento.

Cosa pensa del ruolo della Corte suprema nel dare forma ai miti di cui scrive e nello spingere la nazione verso il nazionalismo cristiano?
Il mito favorito della Corte suprema è quello della Fondazione, espresso nelle dottrine dell’originalismo. Si sono serviti di questa dottrina per asserire il potere e l’intenzione di sovvertire precedenti legali fondamentali, che sostenevano l’ordine sociale e politico liberale. Il controllo delle armi, il diritto all’aborto, i poteri regolatori del governo. I nazionalisti cristiani sostengono una visione della Fondazione per la quale la nazione è stata originariamente concepita come cristiana e che una giusta interpretazione della Costituzione ripristinerebbe l’autorità dei valori cristiani. Credo che si possa osservare, nelle opinioni dei giudici Samuel Alito e Clarence Thomas, un’inclinazione a indebolire il muro che è stato eretto fra stato e chiesa attraverso una miriade di piccole azioni – consentire i finanziamenti statali alle scuole religiose, il diritto alla preghiera pubblica e all’esibizione di simboli religiosi in luoghi di pubblica proprietà – e l’azione enorme di abrogare Roe v Wade. Non mi è chiaro quanto in là sulla strada del nazionalismo cristiano questi giudici intendano spingersi.

 

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