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Una, nessuna, centomila Beirut

Una, nessuna, centomila BeirutIl parco Horsh Beirut – Reuters

Libano Le gru minacciano un parco riaperto dopo 20 anni dalla società civile, vittima di una trasformazione urbana che impedisce l’identità comune

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 20 ottobre 2017

La storia del Libano, per come ce la raccontano, ci restituisce un immaginario di guerre, odio e massacri a cui viene spesso accostata l’immagine fiorente della Svizzera del Medio Oriente.

Custode di ricchezze storico-culturali che dalla civiltà fenicia attraversano l’epoca romana fino alla conquista ottomana, il Libano da sempre è stato un ponte tra Oriente e Occidente.

LA CAPITALE, BEIRUT, da piccolo centro portuale tra i grandi del Mediterraneo, è stata protagonista di una crescita esponenziale sul modello dello sviluppo capitalistico europeo durante il Mandato Francese e oggi rappresenta un importante riferimento nell’area grazie al suo dinamismo economico e socio-culturale, forte fattore di attrazione di capitali esteri.

Percorrendo Le Rue de Damas, lungo la quale tra il 1975 e il 1990 la Green Line divideva la parte est della città – a prevalenza cristiana – e quella ovest – a prevalenza musulmana –, salta all’occhio il contrasto tra i residui degli edifici martoriati dalle pallottole della guerra civile e i moderni colossi realizzati attraverso il programma di ricostruzione del Beirut Central District di Solidère, promosso dal deceduto primo ministro Rafiq Hariri e consolidatosi sulla visione fortemente neoliberale della «Beirut città del futuro».

Nel 2009 l’organizzazione Nahnoo, costituita da giovani libanesi che ancora oggi lavorano per la costruzione di una società di coesione, lancia una lunga campagna per la riapertura del parco pubblico Horsh Beirut, chiuso nel 1990.

Le dichiarazioni ufficiali da parte della Municipalità di Beirut hanno giustificato la chiusura con motivi legati alla salvaguardia del patrimonio naturalistico del parco, riqualificato al termine della guerra civile.

IL PARCO È SITUATO in un’area di confine tra i quartieri cristiani, sunniti e sciiti e sono in molti a ritenere che dietro queste ragioni ufficiali si nasconda in realtà il timore per lo scoppio di nuove tensioni settarie. Attraverso workshop, discussioni e attività di diverso tipo, Nahnoo rivendica il proprio diritto allo spazio pubblico come «spazio vitale per l’interazione e la vita civica».

I massicci processi di trasformazione urbana legati ai progetti di ricostruzione post-conflitto civile sono talvolta attuati tramite meccanismi di esproprio e di privatizzazione da molti criticati perché anti-democratici e incostituzionali.

Lo spazio, citando Foucault, non dovrebbe essere trattato come «morto, fisso, non dialettico e immobile», ma dovrebbe essere luogo in cui processi di memoria e immaginazione collettiva assumono una valenza di rilievo nella ridefinizione dello stesso, inteso non solo in termini fisici, ma anche come dimensione ideale di interrelazione.

ATTRAVERSO LA CAMPAGNA per la riapertura di Horsh Beirut, i cittadini hanno preso parte a momenti altamente creativi e di immaginazione collettiva, adottando pratiche di socializzazione e offrendo una visione alternativa alla definizione dello spazio in una città caotica come Beirut.

La campagna di Nahnoo ha portato nel 2015 la Municipalità a riaprire il parco dopo vent’anni di chiusura, segnando così un’importante vittoria per la società civile libanese.

Oggi l’integrità del parco viene nuovamente messa in discussione dal piano di costruzione di un ospedale al suo interno. La decisione è stata seguita da diverse manifestazioni organizzate dalla società civile libanese e da una petizione promossa sempre da Nahnoo e che ha coinvolto i quartieri cristiani e musulmani adiacenti al parco.

Il Libano non ha mai del tutto affrontato un reale processo di riconciliazione non essendo mai stata elaborata una narrazione condivisa del conflitto. Una mancanza che evidenzia le rigide barriere, sia tangibili che intangibili, esistenti tra le varie comunità residenti e che riproducono talvoltapratiche conflittuali e di prevaricazione riflesse dalla guerra civile.

BEIRUT È UNA METROPOLI in continua trasformazione che, seppur capace di smentire stereotipati esotismi, del tutto occidentali, conserva un’identità comunque di difficile definizione. È, infatti, un bacino di diversità, spesso in contrapposizione tra loro, in cui sono insiti enormi fattori di criticità.

La sua composizione sociale vede la quotidiana convivenza di diciotto realtà confessionali che rendono il contesto socio-urbano un palcoscenico a volte eccentrico e di profonda complessità. Le implicazioni dei quindici anni di guerra civile (1975-1990) sono ancora oggi ben radicate nel senso comune della società libanese, tuttora in fase di ristrutturazione se non di costruzione di un’identità nazionale.

IL CENTRO CITTÀ manca ancora di una cartografia ufficiale e è diviso seguendo affiliazioni settarie che accentuano la polarizzazione delle varie componenti sociali, oltre a essere caratterizzato da enormi disuguaglianze socio-economiche.

I quartieri, pur essendo spazialmente vicini, si presentano come delle bolle chiuse e non comunicanti tra loro, anche se timidi processi di trasformazione in atto in alcune aree sembrano elasticizzare queste circostanze.

Non è infatti più così insolito, in un quartiere storicamente cristiano come Achrafieh, incrociare famiglie musulmane, come non è difficile incontrare palestinesi residenti al di fuori dei campi profughi, negli ultimi anni attraversati anche da un’importante componente di rifugiati siriani.

NON A CASO MOLTI ritengono che Beirut stia attraversando un momento di transizione da città pluri-culturale a una multiculturale, pur essendo ancora immersa in una fase di emergenza post-conflitto.

La definizione degli spazi, infatti, avviene spesso in maniera verticale attraverso feroci politiche urbane di cui la compagnia pubblico-privata Solidère si è resa responsabile, frutto di interessi specifici e di rapporti economici all’interno della società libanese.

Alla luce di questo, programmi di riqualificazione puramente architettonica e speculativa riproducono schemi di violenza attraverso processi meramente estetici di cui i cittadini risultano esserne i consumatori.

Un esempio può essere il progetto «Beirut Souks» che nel 2009 ha portato all’apertura – con dieci anni di ritardo a causa dell’instabilità politica e della guerra con Israele nel 2006 – di un enorme impianto commerciale comprensivo di centinaia di esercizi, cinema e ristoranti, che ha preso il posto dei caratteristici mercati mediorientali.

Ciò ha inevitabilmente evidenziato le profonde asimmetrie tra trasformazione urbana e memoria storica, processo in cui momenti di socializzazione e di immaginazione collettiva non sono scontati.

IL PROGRAMMA di ricostruzione di Beirut è ben lontano dall’adottare pratiche di tipo partecipativo. Al contrario negli ultimi anni ha accentuato dinamiche di esclusione dai processi di definizione degli spazi pubblici.

Diventa quindi molto difficile per la società civile libanese aprire un varco nelle contraddizioni e nei paradossi di una città divisa e far emergere di conseguenza dimensioni di solidarietà collettiva attraverso cui la capacità di immaginazione possa ridefinire non solo l’identità dei luoghi, ma anche gli spazi relazionali tra le varie comunità.

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