Una commedia contro la strategia della paura
Incontro Parla Antonio Albanese, regista di «Contromano». Il titolare di un negozio di calzini decide di «rimpatriare» il suo concorrente africano. «Si stanno ribaltando i princìpi, è un momento difficile e un certo tipo di politica se ne approfitta. Conta il dialogo, il confronto fra culture diverse, il contatto umano»
Incontro Parla Antonio Albanese, regista di «Contromano». Il titolare di un negozio di calzini decide di «rimpatriare» il suo concorrente africano. «Si stanno ribaltando i princìpi, è un momento difficile e un certo tipo di politica se ne approfitta. Conta il dialogo, il confronto fra culture diverse, il contatto umano»
Antonio Albanese è nato in Brianza, a Olginate, all’epoca provincia di Como, ma la sigla delle origini della sua famiglia, Pa, non sta propriamente per Padania. Da giovane lavora a radio locali, poi studia recitazione alla scuola del Piccolo di Milano, ma ben presto i suoi personaggi comici sono catturati dalla tv. Prima con Paolo Rossi in Su la testa, dove propone Alex Drastico e Epifanio. Poi è Mai dire goal che lo consacra definitivamente grazie alla sua comicità surreale. Da allora è stato un susseguirsi di successi a teatro, in tv e al cinema, dove Qualunqumente e Tutto tutto niente niente hanno scorticato alcuni rappresentanti, inventati per carità, della nostra politica. Ora è tornato a essere protagonista e regista al cinema con Contromano da giovedì scorso nelle sale. Un titolo che è già un programma e che offre diverse letture. L’interpretazione letterale dice che Mario, il protagonista milanese titolare di un negozio di calzini, decide di riportare a casa sua l’immigrato che vende calzini «filo di Svezia» proprio davanti al suo negozio, con tanto di presunta sorella al seguito, perché se ognuno di noi rimpatriasse un immigrato il problema sarebbe risolto. Quindi un flusso di segno opposto a quello corrente, con anche qualche errore geografico, perché noi europei di Africa sappiamo poco. Ma è anche il taglio del racconto che va “contromano”, nessun dramma, nessuna tragedia, solo voglia di riflettere con qualche sorriso su un fenomeno che di solito viene invece vissuto solo di pancia e di risentimento da troppi italiani. Ma lui non strepita, non urla, non grida e allora cominciamo col cercare di capire perché hai fatto questo film in questo modo, da brava persona quale davvero sei. «Quando pensi un film lo devi fare, in questo caso poi ritengo sia un modo per conoscersi».
E dove hai conosciuto Alex Fondja e Aude Legastelois, i due immigrati protagonisti che Mario decide di riportare in Africa?
Li ho trovati in Francia, noi, in Italia, siamo solo alla seconda generazione di immigrati, siamo all’infanzia, non ci sono ancora professionisti come là. Così abbiamo fatto a Parigi le selezioni e i provini. Lui, Alex Fondja, interpreta Oba, di solito fa teatro, lei invece Aude Legastelois, Dalida, è al suo primo film, è conosciuta meglio come cantante, ha una voce fantastica. Dopo sono venuti in Italia a lavorare sulla sceneggiatura. Hanno subito capito quel che volevo: leggerezza e diversità. Loro anche più di me, che pure da subito avevo pensato a questo approccio, desideravano un incontro più leggero su un argomento così importante e ricco di implicazioni. Io non sono un’intelligenza suprema, però osservo, guardo, sento, anche da spettatore. Per questo desideravo uno sguardo più leggero, che potesse scavalcare la distanza tra «noi» e «loro», la leggerezza in questa fase è trasgressione.
Il «tuo» Mario sembra far parte da sempre della tua galleria di personaggi: abitudinario, solitario, imprevedibile
Lui è il paradosso che fa parte di tutti noi, in lui c’è un’altra solitudine, Diffidente, chiuso, solo in generale, è quello che rischia di essere malinconico. Costretto a passare una vita nel negozio di calzette.
Poi però c’è il momento di svolta con la concorrenza «sleale» di Obi e la reazione inaspettata di Mario che porta al confronto scontro.
Il tema è imponente. Spesso è trattato in modo cupo ecco, io volevo fosse più fantastico, più leggero. Se non nasce un dialogo, senza un contatto umano non si può risolvere nulla. Se sei diffidente la strategia della paura e del terrore si condizionano e non risolvono il problema. Conta il dialogo, il da dove, il perché, il confronto da culture diverse può fare migliorare.
Tu quindi li costringi a una sorta di convivenza e confronto forzati. Eppure quello dell’immigrazione, così come quello della sicurezza sono stati due temi importanti e decisivi nelle ultime elezioni. Le forze di destra soprattutto hanno rispolverato un linguaggio e ipotesi spaventose. Si fa leva solo sulla paura esasperandone toni e timori.
Certo, ma quelli che li hanno votati non si ricordano che già per tanti anni sono stati alla guida del paese e non hanno risolto niente. Io guardo ai fatti. Sono stati votati, hanno governato, ma non hanno risolto. La loro è una strategia mediocre, la loro soluzione è un comportamento non onesto, non è serio. A suo tempo avevo fatto uno spettacolo Psycoparty, proprio sulle paure, sulla politica che tradisce la serenità di un paese. Oggi stanno di nuovo solo cavalcando la crisi economica.
Però diventa difficile sopportare che chi in mare aiuta dei naufraghi possa essere perseguito penalmente. Sono principi basilari e secolari della civiltà che vengono cestinati.
Si stanno ribaltando i principi è un momento difficile e un certo tipo di politica se ne approfitta. Per questo io volevo uno sguardo diverso, dolce, buono, vocaboli che a me piacciono, uno sguardo che richieda impegno, ho già lavorato a suo tempo su cinismo e rabbia, la leggerezza oggi è quasi punk nel suo essere davvero trasgressiva.
Hai già sondato le reazioni del pubblico di fronte a una proposta contromano?
Dopo la prima a Milano ho guardato il pubblico, mi piace quando c’è curiosità è una visione stimolante diversa, mi piace lo sguardo di chi chiede perché questo, perché quello. Mi ricordo quel che era successo una volta alla presentazione di Qualunquemente. Io me ne stavo in fondo, davanti a me il direttore di un famoso quotidiano a un certo punto sbotta e dice «ma queste cose non succedono davvero». Ho dovuto uscire dalla sala perché non riuscivo più a controllarmi, ridevo davvero molto forte a quella sortita che la diceva lunga su come aveva visto il film.
Forse intendeva il cinema come lezione di storia…
Ma il nostro lavoro deve tentare di seminare dubbi, non di fornire certezze. Stasera (ieri sera ndr) sono a Propaganda con gli amici che realizzano la trasmissione. Ero già andato da loro a Gazebo nel momento più alto di Renzi, e avevo proposto il renzismo in analisi perché secondo me si trattava di esuberanza curiosa. Sarebbe invece curioso vederlo adesso che sono quasi tutti in analisi. Avevo fatto qualcosa di simile anche in un altro mio spettacolo, Giù al Nord, quel tipo di leggerezza può permettere di sapere con grande anticipo come intervenire su certi temi.
La leggerezza è sicuramente una chiave, ma molte situazioni legate all’immigrazione sono davvero terribili: guerre, persecuzioni, violenze, miseria, povertà, tutti temi che non sempre possono essere raccontati con leggerezza…
Esistono moltissimi ottimi materiali e documentari che raccontano questi aspetti, ma se vuoi sempre e solo rappresentare il dolore il rischio è quello di allontanare il pubblico, di portarlo a una sorta di assuefazione per questo dobbiamo anche cercare di aiutarci di dirci una parola che possa suonare meno cupa.
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