«Un rifugio per chi parte, uno scudo per chi resta»
Afghanistan Appello della società civile italiana a Roma e alla Ue per salvare l’attivismo afghano: corridoi umanitari per chi vuole lasciare l'Afghanistan e meccanismi di protezione internazionale per chi rimarrà nel paese. Le voci delle ong firmatarie
Afghanistan Appello della società civile italiana a Roma e alla Ue per salvare l’attivismo afghano: corridoi umanitari per chi vuole lasciare l'Afghanistan e meccanismi di protezione internazionale per chi rimarrà nel paese. Le voci delle ong firmatarie
Un rifugio per chi vuole andarsene, uno scudo per chi intende restare. Sono queste le richieste contenute nell’appello per l’Afghanistan della “Rete in Difesa di – Per i diritti umani e chi li difende”, di cui fanno parte associazioni italiane, da Arci a Cospe, dai Giuristi Democratici alla Cgil, dalla Lega per i diritti dei popoli a Un Ponte Per. A loro, per l’occasione, si sono unite realtà da tutta Italia.
La lettera è indirizzata alle istituzioni italiane ed europee: al presidente dell’Europarlamento David Sassoli, al presidente del Consiglio Mario Draghi, ai ministeri di Esteri e interni, alla Commissione esteri della Camera, ai rappresentanti italiani a Ginevra, Gian Lorenzo Cornado, e al Palazzo di Vetro, Gianluca Alberini.
Chiedono due cose: «Un’iniziativa per facilitare un rapido rientro in dignità e sicurezza della popolazione civile che chiede di abbandonare il paese, sentendosi in pericolo, e altre iniziative tese a proteggere chi decide di restare nel paese o non può fare altrimenti».
Un doppio intervento, necessario e urgente, che – aggiungono – «non può cessare con la fine della presenza militare internazionale così come l’impiego di risorse non può terminare per i risultati fallimentari, compreso il processo di cosiddetta democratizzazione nell’ultimo ventennio».
Tra chi ha trascorso gli ultimi giorni a organizzare le evacuazioni dall’aeroporto di Kabul c’è il Cospe, organizzazione toscana impegnata da quasi 40 anni in 25 paesi del mondo.
Tra questi, dal 2008, c’è l’Afghanistan: «Mentre parliamo una trentina di afghane e afghani sono in volo verso l’Italia – ci dice Gianni Toma, responsabile per il Medio Oriente – Gli ultimi giorni sono stati difficili, complessi. I nostri partner e il nostro staff ci hanno chiesto di portarli in Italia. Attiviste e attivisti per i diritti umani, avvocate, logisti, amministratori e contabili, un gruppo di calciatrici di Herat e un gruppo di cicliste. E ovviamente le loro famiglie. In tutto sono circa 50 persone».
«Ci siamo mossi in cooperazione con i ministeri degli Esteri e della Difesa e con i soldati rimasti di stanza in Afghanistan. Al loro arrivo, dopo la quarantena, vorremmo portarli in Toscana per poterli inserire nelle nostre attività per quanto possibile e far loro intraprendere percorsi di assistenza».
Giorni pieni, sfibranti, per far salire sugli aerei italiani chi ha lavorato per anni insieme al Cospe: le donne di Hawca (Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan), che si occupa di fornire rifugi sicuri e sostegno legale e psicologico alle donne in fuga dalle violenze, e gli attivisti, i giornalisti e gli avvocati del Cshr (Civil Society and Human Rights organization).
«Sono persone che si battono per i diritti umani – aggiunge Toma – perché l’intervento internazionale non ha certo portato democrazia. E i Talebani ci sono sempre stati, hanno sempre messo a rischio le libertà degli afghani. Non se ne parlava, nell’ubriacatura dell’idea della democratizzazione dell’Afghanistan».
Un Ponte Per in Afghanistan non è presente, ma è tra i firmatari. E tra chi si è mobilitato per l’evacuazione: «Abbiamo reputato opportuno sostenere i compagni sul territorio e fornire nomi di persone che sarebbero dovute partire – ci spiega Alfio Nicotra, presidente di Upp – Ma a causa dell’attentato sono tornate indietro».
Per tutti loro “Rete in Difesa di” chiede il blocco dei rimpatri degli afghani, la modifica della normativa sugli ingressi e il mantenimento di un presidio diplomatico in Afghanistan. E poi chiede altro: tutelare chi intende rimanere, attraverso l’invio di una missione Onu, un meccanismo internazionale di monitoraggio del rispetto dei diritti umani e finanziamenti alla società civile.
«In tempi non sospetti – conclude Toma – come Cospe non abbiamo mai realizzato progetti di emergenza ma sempre di sostegno ad attiviste e attivisti: pensiamo che l’Afghanistan abbia bisogno di questo, indipendentemente dal governo in carica o dalla situazione politica. Adesso a maggior ragione ci sarà necessità di proteggere chi vuole restare e resistere alle politiche dei talebani. Sono tanti. La comunità internazionale, la Ue e la Cooperazione italiana devono rafforzare i programmi di sostegno ai difensori dei diritti umani, creare meccanismi di protezione che permettano loro di poter operare nel loro paese. È questa la sfida più significativa».
«Le ong devono poter operare sul territorio – aggiunge Nicotra – e l’unica possibilità per farlo è una pressione diplomatica e politica forte della comunità internazionale. Fallita la Nato, vedremmo bene anche un’iniziativa delle Nazioni unite. Le missioni unilaterali hanno portato a questo disastro, noi come Upp lo sperimentiamo in Iraq. Questi 20 anni di occupazione militare hanno sdoganato dei mostri e ora ogni luogo frequentato da civili potrebbe diventare campo di battaglia. L’unica speranza è la resistenza della società civile afghana, dobbiamo sostenerla».
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