Il reddito di base è la risposta alla questione sociale del XXI secolo: sempre più grandi moltitudini di persone vivranno male perché lavorano troppo e peggio, mentre sono ancora più numerosi coloro che non trovano lavoro e saranno distrutti dal bisogno. Il dibattito dominante sulle piattaforme digitali e, soprattutto, quello sull’intelligenza artificiale, ignora questa condizione. E, quando se ne accorge, restituisce quasi sempre la versione che la Silicon Valley ha dato di questa potente idea politica: il basic income dovrebbe essere pagato dalla fiscalità generale a favore degli esclusi, e dei miserabili, non essere integrato in una più generale visione del Welfare finanziato anche dalle tasse che le piattaforme digitali evadono, non diversamente da quanto fanno gli oligarchi che aspirano a un mondo senza democrazia.

In realtà, la ricerca sul reddito di base, e sul suo rapporto con il capitalismo digitale, è ricca e articolata. Sono due i modi in cui questa istanza è stata recepita. Il primo lo ha inteso come il pagamento degli utenti delle piattaforme sotto forma di salario o attraverso un sistema di micro royalties in cambio del diritto delle aziende ad usare i dati, i brevetti, i diritti d’autore. Questa idea è legata alla percezione di un «reddito psichico» oppure un «credito relazionale».

Chi parla di reddito (digitale) di base capovolge invece la logica delle piattaforme che si appropriano del valore senza riconoscere nulla in cambio. Tanto più queste interfacce sono usate, tanto più dovrebbero accrescere il valore di chi le usa, liberando la forza lavoro dalla ripetizione degli schemi comportamentali.

Il reddito di base non andrebbe dunque erogato alle persone solo perché cliccano su uno schermo, ma a una forza lavoro che produce il valore complessivo anche, e non solo, delle piattaforme. Tale valore non è di proprietà delle aziende. È comune e, come tale, va redistribuito.

La proposta è finanziare il reddito tassando le piattaforme non solo sulla base dei data center o del fatturato che producono in un paese, ma sulla base dei dati prodotti dalla forza lavoro dei loro utenti. Se in un paese esistono 30-40 milioni di utenti, ad esempio l’Italia, allora la tassazione andrebbe commisurata in base alla produzione totale. Una volta raccolti, i fondi andrebbero convogliati sul reddito di base e non dispersi in altre misure.
Il reddito di base sarebbe allora uno dei provvedimenti utili per redistribuire le ricchezze incommensurabili accumulate dagli anni Ottanta del XX secolo. Potrebbe essere considerato al pari di altre proposte come la Tobin Tax sui capitali finanziari; la Carbon Tax per la conversione ecologica dell’industria fossile; l’“euro-dividendo”, ovvero un reddito di importo variabile in base al costo medio della vita in ciascuno stato membro dell’Eurozona, integrato in maniera variabile dalla Banca Centrale Europea; le imposte progressive sui patrimoni oltre il milione di euro.
Oggi il capitalismo digitale è una singolare forma di comunismo delle multinazionali tecnologiche. Nella prospettiva del reddito di base questo assetto sarebbe rovesciato in un comunismo della forza lavoro. È ciò che, in fondo, significa il concetto di «piattaforma»: la base di un’alleanza tra soggetti eterogenei. Per i Diggers nel XVII secolo significava il superamento della proprietà privata, l’abolizione del lavoro salariato e l’orizzonte di un comunismo possibile.