La strada per l’uscita dal pozzo per Ilaria Salis è ancora lunga. La concessione degli arresti domiciliari (in Ungheria) è sì un cambiamento importante, ma la situazione generale, per l’antifascista italiana, resta complicata. Su di lei, infatti, pende ancora un processo che potrebbe costarle fino a 24 anni di condanna per delle presunte aggressioni ai danni di nazifascisti locali, tutte con lesioni guaribili in 6 o 8 giorni e che però, nel capo d’imputazione, vengono considerate lesioni potenzialmente mortali.

«IL CAPO d’imputazione – dice Aurora D’Agostino, copresidente dei Giuristi democratici – è arbitrario e indeterminato. A leggere le accuse non si vede né fatto né dolo. Come si fa a dire che quelle lesioni sono potenzialmente mortali o che lei volesse uccidere? Non c’è né l’intenzione né l’evento». Ma questa non è l’unica stranezza che i Giuristi democratici hanno notato durante le udienze . Il rito ungherese è di stampo puramente inquisitorio, con un giudice unico che indaga, dispone, fa e disfa a sua discrezione. «È un sistema molto particolare – prosegue D’Agostino -, c’è un solo giudice chiamato a decidere su tutto dall’udienza preliminare in poi. Oltre che su reati che possono portare a condanne molto pesanti». In Italia, ad esempio, avremmo avuto una corte. Altro elemento che rende l’Ungheria un paese piuttosto distante dalla tradizione processuale europea risiede nelle misure cautelari. «Abbiamo capito che anche a questo proposito l’arbitrarietà è importante – spiega ancora la copresidente dei Giuristi democratici -, all’udienza del 28 marzo, dopo un’ora di domande a Ilaria Salis, il giudice ha deciso di non concederle i domiciliari in pochi secondi, dicendo che, secondo lui, vista la gravità dei reati ipotizzati, tredici mesi di detenzione preventiva non sono poi tanti… È una palese anticipazione del verdetto, un elemento sufficiente a chiedere la ricusazione del giudice. Non so in quali altri paesi europei ci sia un sistema così ostile alle misure non carcerarie». Un dettaglio confermato anche dal fatto che, in Ungheria, una giornata di arresti domiciliari vale un quinto rispetto a una giornata in carcere. In altre parole, per un detenuto (in attesa di giudizio o condannato è indifferente) il tempo passato fuori dalla prigione ha minor valore di quello trascorso dentro.

DOMICILIARI o meno, dunque, Ilaria Salis è ancora prigioniera di un sistema che solo con molta benevolenza si può considerare rispettoso dello stato di diritto. E le prospettive sono sempre incerte, anche perché dal governo italiano continuano ad arrivare consigli piuttosto bizzarri. L’ultimo, per facilitare la possibilità di voto alle europee della candidata Salis, è arrivato dal Viminale: chiedere la residenza a Budapest per potersi iscrivere alla lista degli italiani all’estero. «Ma se facesse questo – riflette Roberto Salis, il padre dell’antifascista – per quale motivo un giudice potrebbe concederle i domiciliari in Italia visto che è residente a Budapest?». E mentre Tajani continua a elogiarsi da solo per i suoi presunti meriti diplomatici (non si capisce se più o meno indirettamente sostenga di aver fatto pressione sui giudici di un altro paese), a guardare i fatti è evidente che la concessione dei domiciliari a Ilaria Salis sia frutto esclusivo del caso mediatico scoppiato dopo la diffusione delle sue immagini in catene. Da lì il governo – che era informato del caso sin dal suo inizio, nel febbraio del 2023 – è stato costretto a interessarsi della vicenda. Il resto l’ha fatto la candidatura della donna con Avs, evento che ha messo in difficoltà il governo ungherese, esponendolo al rischio di un conflitto istituzionale con il parlamento europeo. Insomma, è la politicizzazione della storia ad aver smosso le acque. Non il silenzio che invocava il governo italiano solo per poter continuare a ignorare Ilaria Salis e il suo incubo.