Internazionale

Un partito che si guarda l’ombelico: da Chicago il mondo è invisibile

La protesta di lunedì contro la politica Usa in Palestina foto ApLa protesta di lunedì contro la politica Usa in Palestina – Ap

Stati uniti Alla convention democratica oscurata la politica estera: Biden non ne parla, la base non sembra troppo interessata. La nazione con 750 basi militari in 80 paesi rifugge il proprio ruolo, da Gaza in giù

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 21 agosto 2024
Luca CeladaINVIATO A CHICAGO

Con il discorso che non avrebbe voluto mai pronunciare, Joe Biden ha imboccato l’uscita dalla storia. Ha ricambiato i ringraziamenti che rimbombavano nello United Center che gli ha tributato cinque minuti di standing ovation, ha negato ogni amarezza per l’uscita prematura di scena («sarò il più volenteroso volontario della campagna di Kamala») e ha ripercorso le tappe di una presidenza, la sua, che ha nuovamente inquadrato come difesa della democrazia Usa nel momento di massimo pericolo.

IL PRESIDENTE, per cui gli ultimi cinque mesi di mandato sono anche gli ultimi della carriera politica, ha ricordato le fiaccolate naziste di Charlottesville e l’assalto eversivo al Congresso, le aberrazioni trumpiste che hanno portato la maggiore democrazia occidentale sull’orlo di una destabilizzazione precedentemente impensabile.

Quello che ha taciuto o quasi è stato il ruolo dell’America nel mondo. Nel momento in cui la transizione verso un mondo multipolare sta producendo una «guerra mondiale a pezzi», nel discorso del presidente degli Stati uniti la geopolitica ha meritato, sì e no, lo spazio per vantarsi di avere rafforzato e ampliato la Nato che Trump aveva indebolito con l’isolazionista dottrina dell’America First.

In 45 minuti di discorso, una manciata di secondi per rivendicare l’alleanza della guerra fredda come futura proiezione americana (citando per di più Kissinger come padre spirituale della dottrina anti russa). Nel contesto della convention si è trattato di una applause line come tante altre, come la creazione di impieghi o il sostegno alle truppe (comprovato assioma della retorica politica americana).

L’altro accenno alle guerre di cui Biden è “titolare” (che i manifestanti all’esterno del palazzetto non avessero «tutti i torti perché a Gaza vi sono troppe vittime civili») è sembrato addirittura ingiurioso, considerando il flusso ininterrotto di armi che da Washington continua a fluire verso i carnefici di quelle persone.

È PREVEDIBILE che anche quando si tratterà di definire meglio i programmi di una possibile amministrazione Harris, non vi sarà molta più attenzione alla politica internazionale e alle forme di egemonismo che è lecito attendersi dalla nazione con 750 basi militari sparse in 80 paesi.

La realtà è che si tratta di una tematica di cui vi è scarsa coscienza, perfino fra i delegati presenti qui, il segmento di più politicamente attento del partito. Un sondaggio pubblicato lunedì da GenForward e università di Chicago indica che la guerra si colloca agli ultimi posti dei temi considerati rilevanti dagli elettori sotto i 40 anni, dopo economia, immigrazione e diseguaglianza economica.

E se la repressione e la delegittimazione del movimento pacifista istituzionalmente implementate negli ultimi dieci mesi hanno dimostrato qualcosa, è che le politiche americane verso Israele rimangono in gran parte «intoccabili». È vero che il dibattito politico e culturale degli ultimi mesi ha modificato alcuni equilibri – ad esempio invertito i ruoli di maggiore sponsor di Israele fra i due partiti (prima erano i democratici ora sono i repubblicani).

Ma malgrado le occasionali dichiarazioni genericamente critiche, lo stato ebraico difficilmente rischia un’inversione di rotta sulle politiche americane che lo vedono come saldo e insostituibile alleato di una proiezione mediorientale, nemmeno ora che è governato da una pericolosa cricca di etnonazionalisti fanatici e senza scrupoli. Una funzione anche dell’imponente e capillare apparato di influenza delle lobby filo israeliane a Washington per cui la pratica dello stato ebraico, nel contesto della politica americana, è più propriamente un tema interno che estero.

PER IL SOSTEGNO a Israele gli Stati uniti sono disposti ad accettare rischi (anche elettorali) impensabili in altri contesti. Nella fattispecie quello damocleo della guerra regionale cercata in ogni modo dal filo trumpista Netanyahu (che per Harris in particolare potrebbe tramutarsi la più dannosa delle «sorprese d’ottobre»).

Da quando Harry Truman sottoscrisse la formazione di Israele nel 1948, il sostegno è stato articolo di fede imperituro. Dei presidenti del dopoguerra solo Bush padre e Ronald Reagan non visitarono Israele e quest’ultimo fu forse quello che più efficacemente frenò un’azione militare di Tel Aviv (l’incursione in Libano del 1982). Medio Oriente a parte, è lecito dunque prevedere che il mondo continuerà a venire oscurato in questa convention, più assorbita dalla questione identitaria nazionale.

Sull’indifferenza americana al mondo vale il teorema di Diego Luna, l’attore regista messicano che anni fa raccontava della sconfitta subita dalla sua nazionale di calcio da parte di quella Usa. Come se l’onta non fosse già abbastanza, la gente che incontrava in America non sapeva nemmeno di cosa stesse parlando – era questo a rendere ancor più insostenibile la sconfitta.

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