Per quanto avvenga su basi assolutamente ingannevoli, non va sottovalutato lo slittamento semantico, e dunque politico, verso il governo di le tematiche del “lavoro” che centro-destra sta compiendo. Il Def prefigura soprattutto innumerevoli benefici fiscali per i ricchi e contrazioni della spesa pubblica (quella sanitaria scenderà al 6,2% nel 2026, un valore inferiore al 6,9 pandemico e addirittura a quello – il 6,4 – prepandemico) e per il resto è il trionfo dell’immobilismo rinunciatario. Sul Pnrr continuano un’impreparazione e un’approssimazione che preludono a veri e propri arretramenti, con lo scandalo, per esempio, della prospettata rinuncia a parte degli investimenti in asili-nido nei quali i ritardi nazionali sono eclatanti. Non si stanziano risorse per rinnovare i contratti di dipendenti gravemente colpiti dall’inflazione, mentre si allarga la possibilità di ricorrere alla precarietà e si ipotizza un uso dello strumento fiscale (flat tax e pasticciati quozienti famigliari), oltre che irrealistico, profondamente sbagliato perché a vantaggio dei ceti abbienti. Ma la convocazione il primo maggio del consiglio dei ministri per varare il decreto lavoro non è solo una provocazione. Sgnala che la destra meloniana vuole porre al centro della sua autoridefinizione conservatrice la questione del lavoro.

Il punto drammaticamente critico è che ce ne ripropone una visione, appunto, conservatrice e perfino reazionaria: il lavoro solo come “fatto economico” e “fattore di produzione” al servizio dell’impresa la cui libertà di “fare” rimane illimitata senza richiamo alla sua “responsabilità sociale”, il lavoro come fatto punitivo e coercitivo per i soggetti, una visione ben lontana dalla concezione del lavoro come aspirazione all’autorealizzazione e al riconoscimento della dignità e come veicolo di identità antropologicamente spessa e ricca che ha sempre animato, dall’Ottocento in poi, le istanze tanto del socialismo quanto del cattolicesimo democratico, intrinseche oggi al messaggio di papa Francesco.

È per questo che la sinistra deve contrastare il saccheggio linguistico a cui la destra si accinge e deve riappropriarsi con entusiasmo del trinomio “lavoro, persona, dignità” alla base della Costituzione antifascista. E quale modo migliore per farlo che lanciare un “Piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile”? Un grande progetto che, nel rivolgersi a giovani e donne, i soggetti più colpiti e penalizzati dalle trasformazioni in atto – dai lasciti pandemici alle devastazioni ambientali, alle conseguenze della guerra in Ucraina, ai sommovimenti connessi all’evoluzione delle tecnologie e dell’Intelligenza Artificiale –, incroci le eccezionali esigenze di nuovo sviluppo del paese .

Occorre, quindi, fare di “lavoro”, “persona”, “dignità”, “progetti”, “programmazione”, “capacità progettuale”, le parole chiave. Per una “progettualità” grandiosa, sulle tracce autentiche del New Deal di Roosevelt, che non può ricorrere solo alle misure incentivanti a cui si fa l’abnorme ricorso per stimolare indirettamente la generazione di lavoro (come incentivi fiscali, decontribuzioni, bonus, voucher, trasferimenti monetari), ma che richiede strategie di creazione diretta di lavoro mediante un insieme articolato di progetti, promosso e veicolato dall’operatore pubblico entro una sfera istituzionale complessa aperta alla pluralità e allo sperimentalismo.

Del resto, questo stesso spirito anima oggi i democratici progressisti americani che, con l’Infrastructure Investment and Jobs Act, il piano per la transizione energetica (369 miliardi di dollari in 10 anni), il Chips and Sciences Act (40 miliardi), operano un profondo cambiamento ideologico e filosofico, mirando a restituire la sua nobiltà alla guida pubblica. Una visione dell’economia che non solo relega in secondo piano l’ossessione dominante della concorrenza attraverso i prezzi e promuove un keynesismo dell’offerta enfatizzante più che la redistribuzione e i trasferimenti , ma punta a dare pari valore alla “dignità” rispetto all’”efficienza”. Un mix di politica economica, strategia politica e filosofia del riconoscimento solidale che incorpora la consapevolezza della centralità del lavoro e della cooperazione umana.

Un simile slancio immaginativo e progettuale racchiude anche la possibilità di proporsi in modo incisivo e a scala europea la questione della “direzione dell’innovazione” suggerita da Anthony Atkinson, senza arrendersi all’idea che l’innovazione sia possibile solo se veicolata da spese in armi e in guerra e che abbia un suo decorso neutrale e necessitato.

Daron Acemoglou ritiene erronea la presunzione che l’indirizzo già assunto dall’avanzare della intelligenza artificiale – tutto a risparmio di lavoro e con impieghi esclusivamente destinati a riconoscimento facciale, trattamento linguistico, ideazione di algoritmi sostitutivi della cognizione umana, invece che a soddisfare bisogni quali l’istruzione, l’educazione, la cura – sia l’unico possibile. Si tratta di concepire l’innovazione e le nuove tecnologie non come un processo naturalisticamente determinato, ma come un processo articolato e modellato, oggi ad opera delle propaggini delle grandi corporation, domani in percorsi alternativi che sfruttino le grandi “biforcazioni” in atto ad opera di una spinta creativa alternativa.