Piazza Lazoughly dista dodici minuti a piedi da piazza Tahrir, una decina dall’American University del Cairo. La statua dedicata a Mohamed Bey Lazoughly, dignitario di Mohammed Ali Pasha alla fine dell’Ottocento, in mano la spada e in testa il turbante, è sovrastata da due enormi edifici. Uno dei due passerà dall’essere il più angosciante incubo di ogni egiziano ad asettico sogno per turisti.

Secondo quanto riportato dalla stampa egiziana, la catena alberghiera Marriott International aprirà – insieme all’egiziana Reliance Ventures – un hotel nell’ex quartier generale del ministero degli interni e della sicurezza interna, l’ex Ssis, dissolta dopo la rivoluzione del 2011 per rispuntare come Homeland Security, o National Security Agency (Nsa).

IN QUELL’EDIFICIO sono stati detenuti e torturati centinaia di migliaia di egiziani. In quell’edificio, nella stanza 13, è stato torturato e ucciso Giulio Regeni. «(Il teste epsilon) ha visto lì Regeni con due ufficiali e due agenti, c’erano catene di ferro, lui era mezzo nudo e aveva segni di tortura, delirava nella sua lingua. Un ragazzo molto magro, sdraiato per terra, con il viso riverso con manette che lo tenevano a terra, segni di arrossamento sulla schiena. Non l’ha riconosciuto subito ma 4-5 giorni dopo vedendo le foto sui giornali ha capito che era lui».

Con queste parole il 10 dicembre 2020 il sostituto procuratore Sergio Colaiocco dava conto alla Commissione parlamentare d’inchiesta dei nove giorni trascorsi dal ricercatore italiano nelle mani dei suoi aguzzini, dal 25 gennaio al 3 febbraio 2016, quando il suo corpo massacrato fu ritrovato lungo l’autostrada tra Il Cairo e Alessandria.

Forte di testimonianze come quelle di «epsilon», per 15 anni dentro l’Nsa, la Procura di Roma ha potuto chiudere le indagini preliminari e rinviato a giudizio i quattro agenti ritenuti responsabili della sparizione, le torture e l’uccisione di Regeni e oggi a processo in contumacia: il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi e il maggiore Magdi Sharif.

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Quel luogo, la sede dell’Nsa di Lazoughly da cui sono passati, legati e bendati, centinaia di migliaia di egiziani, diverrà un albergo di lusso del brand Moxy, strutture dedicate a «giovani viaggiatori», con «camere smart e stylish». Un ostello a cinque stelle, verrebbe da dire, con centri fitness, bar alla moda e spazi comuni a prezzi decisamente più abbordabili di quelli di un Marriott classico ma comunque molto vicini al salario medio che in due settimane un egiziano riporta a casa, 150 euro. Data prevista per l’inaugurazione: 2029

«NEL CENTRO del Cairo c’è una crescente domanda per opzioni di alloggio più lifestyle e Moxy Hotels sarà un’ottima aggiunta al panorama dell’ospitalità della città con la sua esperienza giocosa ed elegante», ha detto in conferenza stampa pochi giorni fa Shady Hassan, vice presidente per lo sviluppo di Marriott in Nord Africa. È un’altra, opposta, l’esperienza che lì dentro ha vissuto Hossam el-Hamalawy. In quell’edificio di epoca ottomana, il regime di Hosni Mubarak ha fatto fiorire un girone dell’inferno.

«Io ci sono entrato quattro volte. La prima l’8 ottobre 2000. Ero uno studente all’American University». Hossam oggi è un giornalista, in esilio, e collabora con il manifesto. Attivista comunista, è stato uno dei volti della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011, ma il suo impegno politico ha radici lontane: «Nell’autunno 2000, la seconda Intifada palestinese era appena scoppiata e io ero tra gli studenti di sinistra che organizzavano le proteste nel campus. Ci arrampicammo sul tetto, noi compagni, tirammo giù la bandiera statunitense che guardava verso Tahrir. Da allora non ha più sventolato».

«Ma quello che davvero disturbava i servizi di sicurezza era il nostro slogan, “La via per Gerusalemme passa dal Cairo”. Stavamo oltrepassando una linea: dicevamo che gli egiziani dovevano democratizzare il loro paese, sbarazzarsi della tirannia e della polizia segreta. I servizi non ce lo hanno perdonato».

La sera dell’8 ottobre Hossam era in auto con la sua compagna, diretto a Giza. Avrebbe dovuto incontrare Ahmed Fouad Negm, il leggendario poeta egiziano. Negm aveva sentito parlare di lui, lo aveva invitato a cena.

«All’improvviso, come in un film, due auto ci hanno tagliato la strada. Degli agenti in borghese mi hanno bendato con la kefiah che indossavo e mi hanno tirato dentro la loro auto. Sdraiato, così che nessun passante potesse vedermi».

LO HANNO PORTATO a Lazoughly, «ed è iniziata la mia odissea». Quattro giorni di botte, torture e interrogatori, minacce e deprivazione del sonno. «Io non parlavo, continuavo a ripetere la stessa cosa: “Voglio essere portato davanti al procuratore e voglio un avvocato”. È quello che ci insegnavano i compagni più anziani, i veterani: non devi mai parlare, dì solo che vuoi essere portato dal procuratore».

«Avevo le mani legate con una corda, ero bendato e continuavano a farmi domande: chi è il leader della tua cellula, da chi prendi ordini, di che organizzazione sei parte. Io ero un disco rotto: chiedevo procuratore e avvocato. Mi hanno picchiato a sangue. Erano in tre o in quattro, continuavano a darmi pugni allo stomaco e in faccia. Poi si fermavano e non sentivo più alcun rumore. Solo il loro respiro. Poi ricominciavano. Non lo so quando è durata».

Lo hanno minacciato di usare l’elettrochoc, hanno portato i fili: «Sentivo rumori metallici, la mia immaginazione correva. Mi hanno spogliato e hanno ripreso a pestarmi, mi minacciavano di stupro. E giù altre botte. Ho iniziato ad avere le allucinazioni, non vedevo niente, non riuscivo a respirare, avevo ancora la kefiah in faccia. Sono svenuto, mi hanno risvegliato i calci. Mi hanno preso di peso e sbattuto la testa contro il muro, tante volte».

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La mattina dopo, prima visita al procuratore. Hossam non ha parlato, per tre ore ha ripetuto solo i dati sulla carta d’identità, nome e indirizzo. Lo hanno rimesso sulla camionetta, direzione Lazoughly: «Lungo la strada, siamo passati davanti a una scuola, c’erano dei bambini, gli ho lanciato un foglio con il numero di mia madre, lo tenevo sempre con me. Sono riuscito a gridargli di chiamarla e dirle dov’ero. Quei bambini lo hanno fatto, l’hanno chiamata da un telefono pubblico, di quelli che stanno nei chioschi».

È andata avanti così per quattro giorni. Lo hanno rilasciato dopo i consueti avvertimenti: minacce di stupro alla compagna e alle donne della sua famiglia, minacce di nuovi arresti. A Lazoughly Hossam è tornato tre volte. Da quel centro di detenzione e tortura nei decenni di regime sono passati centinaia di migliaia di egiziani: «Durante la guerra al terrore, negli anni Novanta, l’intero paese era sotto processo. Non c’è persona in Egitto che non abbia un parente che non sia stato arrestato e non sia passato per Lazoughly. Io ne conoscono centinaia».

LÌ HA TRASCORSO i suoi ultimi giorni Giulio Regeni. Ora la sede del ministero degli interni è stata trasferita a New Cairo, la nuova capitale. La memoria di piazza Lazoughly sarà cancellata, nello stesso modo in cui il regime di al-Sisi prova a cancellare quella di Tahrir, stravolgendone le forme. Non solo il Moxy Hotel: la più ampia ristrutturazione del compound prevede uffici, aree di co-working, ristoranti, uno sviluppo che – dice Magdi Kassabgui di Reliance Ventures – rappresenta «la nostra visione di comunità urbana dove affari, educazione e divertimento convergono».

A gestire l’operazione sarà il Fondo sovrano d’Egitto, creatura partorita nel 2018 dalla mente del presidente golpista Abdel Fattah al-Sisi: un’entità tra privato e pubblico, un patrimonio da 12 miliardi di dollari, che negli ultimi anni ha gestito lo sviluppo edilizio e urbanistico, assumendo di fatto il controllo di edifici storici e patrimonio pubblico.

«Il Fondo sovrano egiziano – continua Hossam – se l’è inventato al-Sisi dopo il golpe. Di fatto è il buco nero delle nostre finanze. Qualsiasi cosa al-Sisi voglia usare per fare affari finisce lì. Quando i ministeri sono stati spostati nella nuova capitale, la proprietà degli edifici è stata trasferita al Fondo, non c’è alcuna trasparenza sulle transazioni».

La faccia del Cairo cambia, tra militarizzazione e gentrificazione. Via i poveri, spinti fuori da quartieri destinati a ricca borghesia e turisti stranieri, via il patrimonio architettonico e la memoria storica. Nemmeno Mubarak aveva osato tanto. Marriott International, contattata dal manifesto a proposito del progetto e del passato del compound, non ha risposto.

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«LEGGERE che quel luogo sarà trasformato in un hotel di lusso è un insulto. Siamo stati sconfitti nella rivoluzione, lo so, ma non rinunciamo ad avere giustizia. Ho sempre sognato che quel posto potesse diventare un museo perché le generazioni successive potessero sapere come questo paese veniva governato. Speravo che la nostra memoria sarebbe stata preservata. Che quei muri che hanno conosciuto il nostro sacrificio e il nostro dolore sarebbero rimasti lì, a immortalarlo. E invece diventerà un hotel. Forse la stanza dove sono stato torturato diverrà una sauna. Forse la stanza di detenzione sotterranea diverrà un’area per le Jacuzzi. Chi lo sa. È qualcosa che mi tormenta».