Nagib Mahfuz, tra sottomissione e disobbedienza: addio vecchio mondo
La lingua araba conserva ancora oggi l’uso del «duale», una categoria presente in lingue antiche come il greco classico o il sanscrito, ma perlopiù ignota a gran parte delle lingue moderne. Proprio con un duale si presenta, nel titolo, il primo atto della saga familiare di Nagib Mahfuz, nota come la «trilogia del Cairo», che Crocetti ripropone (nella storica traduzione di Clelia Sarnelli Cerqua, riveduta da Francesca Prevedello, pp. 540, € 25,00) con il titolo Tra i due palazzi, in originale Bayn al Qasrayn, nome di uno dei vicoli della città antica del Cairo, dove lo scrittore egiziano ambienta il romanzo.
La dualità vi si manifesta in primo luogo nella contrapposizione tra la secolare tradizione, incarnata dal rigido capofamiglia, Ahmad Abd al-Gawwad, e i tempi nuovi che incalzano e dall’esterno minacciano, fino a distruggerle, certezze ritenute immutabili. Ma per il lettore moderno, il dualismo più appariscente è tra l’interno e l’esterno della casa, due spazi che sembrano monadi rette da leggi sostanzialmente indipendenti. Secondo la tradizione, rigorosamente imposta dal sayyid («signore») a tutti i membri della famiglia, il mondo è nettamente diviso tra l’universo delle donne, che non possono uscire neppure per far visita alla vicina moschea o per andare a scuola, e il mondo esterno, di libero accesso per gli uomini, cui tutto è permesso, – purché si ottenga il beneplacito del capofamiglia.
Così, mentre padre e figli seguono gli eventi politici che scuotono l’Egitto alla fine della prima guerra mondiale, e ne restano variamente implicati, le donne di casa percepiscono solo ciò che trapela dai discorsi maschili, soffrendone i riflessi che toccano i famigliari. Emblematica l’ingenua invocazione della madre, Amina: «Mio Dio, te ne prego, veglia sul mio signore, i miei figli, mia madre, Yasin e poi su tutti, musulmani, cristiani e persino inglesi, ma, oh mio Dio, caccia questi ultimi dal nostro paese per far piacere a Fahmi che non li ama!».
Esplorata con sottile precisione, un’altra notevole antinomia riguarda l’animo dello stesso sayyid, in cui si fronteggiano due nature a prima vista incompatibili: da una parte, il comportamento rigidamente controllato, estremamente severo e dignitoso nell’ambito famigliare, dall’altro l’atteggiamento spontaneo, la giovialità e il gusto per i piaceri (in particolare quelli «proibiti») che manifesta nella cerchia delle sue amicizie. «Questi istinti li confondeva tutti nel suo animo, sereno e fiducioso, senza darsi pena alcuna di porli in armonia. Non sentiva il bisogno di rifarsi alla logica per giustificarli». Quando scoprirà che il figlio Fahmi, disattendendo i suoi ordini, si è esposto ai pericoli partecipando attivamente al movimento nazionalista per l’indipendenza – per il quale peraltro anch’egli parteggiava in cuor suo – una lotta tra sentimenti contrapposti esploderà nel suo animo: «Ha disobbedito alla tua parola, ma ha obbedito al tuo cuore… Che fare adesso? Il mio cuore desidera concedergli il perdono ma temo che, dopo di ciò, Fahmi terrà in scarsa considerazione il disobbedirmi!».
Nella scrittura di Mahfuz, i frequenti dialoghi interiori permettono di seguire nei minuti dettagli l’accavallarsi dei sentimenti dei singoli personaggi, consentendo al lettore di penetrare nelle pieghe, a volte molto sottili, della complessa rete di rapporti tra i protagonisti, sospesi tra rituali estremamente formalizzati e necessità di dare sfogo ai propri impulsi e alle proprie emozioni.
Dopo l’abbandono dello stile faraonico, che aveva riversato nei suoi primi assaggi di scrittura, e il passaggio alla descrizione di ambienti e personaggi ispirati alla realtà contemporanea del Cairo, Mahfuz adotta per questo romanzo uno stile lineare, presentando gli eventi in successione ordinata, come il fluire di un grande fiume che trasporta il lettore a esplorare i territori attraversati con studiata lentezza. In effetti, Tra i due palazzi coincide con la piena maturità dell’autore, che pur nell’apparente sua semplicità estetica, evidenzia la propria maestria nel fondere, con studiata naturalezza, introspezione dei personaggi e descrizione di ambienti e squarci di vita quotidiana, colta non solo nella varietà dei mestieri e delle situazioni sociali, ma anche nelle conseguenze che sui singoli hanno, di volta in volta, gli eventi di quel momento storico, in Egitto.
Nessuna delle correnti alle quali si è cercato di far risalire la scrittura di Mahfuz è in grado di accoglierla davvero, e anche se nella letteratura araba l’elemento narrativo è rappresentato da vari generi – il più noto è quello delle maqamât – il romanzo essendo una forma di origine europea, è ovvia – e infatti evidente – l’influenza dei grandi intrecci ottocenteschi, e in particolare, nella Trilogia, gli echi veristi. Nel discorso di accettazione del Nobel, nel 1988, lo scrittore egiziano si professò figlio di due civiltà, quella ormai remota dei faraoni e quella, anch’essa assai antica, del mondo islamico. La prima è difficile da ravvisare nel romanzo, salvo forse, subliminalmente, quando con l’uso del termine ahram al-banadiq, «le piramidi dei fucili» per designare i fucili ammonticchiati a quattro a quattro dagli inglesi che occupano i vicoli, Mahfuz applica alle armi moderne, che consacrano il potere dei nuovi dominatori del paese, il simbolo dell’antica civiltà. La tradizione arabo-islamica, invece, pur dovendo fare i conti con un genere letterario d’importazione, è nettamente percepibile nel gusto dell’adab, il bello scrivere che percorre tutta l’opera, allo scopo di suscitare interesse e piacere nel lettore. Nelle descrizioni, balza all’occhio il frequente ricorso a immagini e metafore, soprattutto naturali: «i dispiaceri proliferavano come insetti in uno stagno»; «i suoi buoni sentimenti nascosti riaffiorarono allo stesso modo in cui l’acqua dolce fa germogliare il verde dai semi giacenti sotto terra», e così via. E i monologhi interiori, che si alternano ai momenti descrittivi, non sono solo funzionali a descrivere le psicologie dei singoli attori, ma consentono anche e soprattutto di evincere il complesso di norme sociali del tempo che ne condizionavano i comportamenti.
Nel groviglio di regole non scritte che a volte paralizzano l’agire dei singoli, il denominatore comune è l’antinomia tra sottomissione e disobbedienza. Nell’islam, l’accettazione delle gerarchie e anche delle ingiustizie, è considerata la suprema virtù, mentre ogni «disobbedienza» equivale al «peccato».
Emblematiche, nei pensieri dei personaggi femminili, le giustificazioni addotte per accettare la condizione di oggetti nelle mani della parentela maschile: aspettando il rientro, a notte fonda, del marito reduce dai bagordi, Amina «doveva attenersi a una rigorosa obbedienza, e quindi obbedì… ben presto biasimare le uscite del marito le ripugnò, fin nell’intimo del cuore»; «non un solo giorno aveva deplorato la sottomissione e il benessere di cui si era sempre accontentata».
L’orizzonte ristretto della casa, bolla isolata dal mondo, priva di riferimenti culturali persino rispetto alla religione, che viene ridotta a una serie di pratiche superstiziose e formule scaramantiche, non consente altre aspirazioni, non solo alla madre ma anche alle figlie, compresa Khadiga, la più intelligente e dotata, che finirà, come la sorella Aisha, nel compiere il suo destino con il matrimonio e nella maternità.
La desolante assenza di qualunque prospettiva di cambiamento, culminata nella drammatica fine di Fahmi, l’universitario brillante dal quale sarebbe stato lecito attendersi un’apertura al mondo del XX secolo, sembra riflettere quel pessimismo di fondo dell’autore sul quale in molti – tra critici e biografi – si sono attardati. A conclusione del discorso di accettazione del Nobel, peraltro, Mahfuz aveva citato il grande poeta Abul-‘Alâ’ Al-Ma‘arri – anch’egli tacciato di umori leopardiani – dichiarando di essere «impegnato (multazim) a favore dell’ottimismo fino alla fine». Di certo, nonostante l’austerità del contesto culturale e la drammaticità degli eventi narrati, che impongono di soffocare ogni espressione esteriore dei sentimenti, nel romanzo compaiono con insospettata frequenza il sostantivo hibb, «l’amore» e il relativo verbo habba «amare, desiderare, volere», che a dispetto dei drammi e della desolazione di questo e altri successivi romanzi, sembrerebbero lasciar trasparire, sebbene tra le righe, una traccia di quell’ottimismo della volontà per il quale Mahfuz si era detto impegnato.
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